L’Evento

Elisabeth Lemsh uscì dall’ufficio stringendo la sua preziosa valigetta scamosciata piena di articoli scritti a mano, non aveva intenzione di piangere, lo aveva fatto troppe volte. La delusione nel corso degli anni aveva lasciato posto alla rabbia. “Si rassegni”, le disse il suo caporedattore, “provi a scrivere di moda e folclore o continui con la politica, ma lasci perdere tutto il resto, mi dia retta, è meglio così”.
“Abbia almeno il coraggio di darmi delle motivazioni” rispose Elisabeth esasperata. Non vi fu una vera risposta, se non un balbettio di considerazioni che vertevano intorno ad un unico argomento “sei una donna, comportati da donna!”.


Certo, pensò quella sera Elisabeth guardandosi nello specchio della sua camera da letto, sono una donna, ma il problema non è solo questo. Si accarezzò i lunghi capelli ricci, prese un foulard color sabbia e li avvolse con cura, come le aveva insegnato sua mamma sin da quand’era bambina. Si asciugò una lacrima che scorreva sulla guancia color cioccolato e avvertì sotto ai polpastrelli l’elasticità della pelle priva di rughe “Sono una donna e per di più di colore” disse ad alta voce, fu quasi un urlo,  come a voler allontanare da sé tutto ciò che non le permetteva di sentirsi realizzata.

Eppure l’ultimo anno di liceo suo padre l’aveva avvisata “forse è meglio se scegli medicina, avresti maggiori opportunità”. Ma Elisabeth fu inamovibile, non sarebbe mai riuscita a tenere in mano un bisturi con la stessa disinvoltura con la quale teneva in mano una penna. “Pa’ Swahili”, rispose fiera, “la medicina non fa per me, io voglio girare il mondo, conoscere persone, imparare le lingue, voglio scrivere, scrivere e ancora scrivere, non sarò mai in grado di guarire un dolore ma voglio imparare almeno a descriverlo”. Suo padre annuì, comprendeva le sue necessità e non aveva alcuna intenzione di tarparle le ali.

Swahili Lemsh era arrivato giovanissimo Italia in qualità di diplomatico per il Consolato Ghanese portando con sé sua moglie Muskeba incinta di pochi mesi. Erano passati tanti anni da quel giorno, sua figlia aveva frequentato le scuole pubbliche, presto si sarebbe iscritta all’università e Swahili non si era mai pentito delle proprie scelte. Non era stato facile lasciarsi alle spalle i propri cari in un paese perennemente in guerra per arrivare in un altro Paese altrettanto problematico, l’Europa era sul punto di esplodere, Polonia e Germania erano arrivati ai ferri corti e nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo, ma Swahili era un uomo determinato e grazie alle proprie capacità riuscì ad affermarsi in un mondo che non gli apparteneva e che dava più importanza al colore della sua pelle che non alle sue capacità.

Elisabeth  si sfilò gli stivali e li abbandonò in un angolo della stanza,  appoggiò  la valigetta scamosciata su una mensola,  non aveva voglia di aprirla, sentiva solo la necessità di riposare. Si sdraiò sul letto con il foulard color sabbia ancora tra i capelli e si lasciò andare  ancora  una volta ai ricordi di quand’era poco più che bambina.

“Domenica mattina andremo a Monza”, disse suo padre mentre facevano colazione. Elisabeth lanciò un urlo di gioia, lasciò cadere per terra il quaderno di algebra sul quale stava annotando gli ultimi esercizi prima di andare a scuola e gli saltò in grembo, abbracciandolo. I giornali avevano annunciato l’imminente inaugurazione del nuovo autodromo, ristrutturato dopo il periodo bellico. Swahili, in qualità di diplomatico, era riuscito a farsi rilasciare un pass; non era stato facile anche perché la presenza di Gronchi rendeva molto selettiva la scelta degli invitati. Era a conoscenza ed avallava la passione di sua figlia per il mondo delle auto da competizione e pertanto nel corso degli anni le aveva regalato diverse riviste specializzate che Elisabeth leggeva con bramosia, annotandone i punti salienti su un quadernetto che custodiva gelosamente sotto al materasso della sua cameretta e che abbelliva con riproduzioni dei principali autodromi sia italiani che esteri, realizzati a mano libera. “Pa’ Swahili, ti prego, fammi incontrare Manuel Fangio”, gli chiese quel giorno con sguardo implorante.

Un raggio di sole la svegliò, indossava ancora gli abiti del giorno prima ma il foulard che contornava il suo bel viso era scivolato sul pavimento di marmo. Guardò l’orologio e si stupì, erano anni che non dormiva così profondamente. Per un attimo tornò con la mente all’autodromo, poi si fece forza, si alzò e mise sul fornello una moka di caffè. Si sedette in un angolo della sala fissando l’unico quadro che abbelliva la stanza. Una cornice di legno leggermente intarsiata ed una semplice lastra di vetro incorniciavano il suo bene più prezioso: un foglio di carta leggermente stropicciato. Erano passati tantissimi anni da quando un uomo in polo e giubbotto da lavoro le regalò un sogno “A Elisabeth, segui sempre i tuoi desideri e non lasciarti intimorire dagli eventi. Manuel Fangio”. Non le era sembrato vero, ma quel giorno El Chueco era lì, davanti a lei, le parlava, parlava a lei, proprio a lei e le porgeva un foglio di carta con una dedica speciale, scritta appositamente per lei, per una bimba di colore dai lunghi capelli ricci. “Grazie Pà Swahili, grazie per aver esaudito il mio desiderio”, disse mentre con mano tremante prendeva dalle mani del suo idolo quel foglio di carta stropicciato.

La caffettiera iniziò a sobbollire e nella stanza si avvertì un gradevole aroma di caffè. Elisabeth spense il fornello e riempì la tazzina. “Se fosse stato di un altro colore non sarebbe stato caffè”, pensò fissando la bevanda nera e fumante “Sarebbe stata comunque una bevanda piacevole, ma non sarebbe stato caffè”. Con la tazzina nella mano sinistra si avvicinò alla finestra e fissando il cielo accostò  l’altra  mano alle labbra e distaccandola lentamente lanciò un bacio “Buongiorno Pa’ Swahili,  ovunque tu sia”. Accese la radio ed ascoltò le notizie che arrivavano da Oltreoceano, poi prese carta e penna e iniziò ad abbozzare un articolo. Se Ronald Reagan fosse stato eletto voleva aver pronto un pezzo da consegnare in tempo reale al suo caporedattore. “Lasci stare tutto il resto”, le aveva detto quello stronzo il giorno prima. No, Elisabeth non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle proprie aspirazioni e ogni volta che veniva presa dallo sconforto ripensava a quel foglietto stropicciato conservato con cura come fosse una reliquia.

 “E’ inutile, Virna, la redazione sportiva neppure li legge i miei articoli. Seppur con un giro di parole, quello stronzo mi ha detto che a nessun lettore di riviste specializzate interessa un articolo scritto da una donna, come se noi donne non sapessimo nulla di automobili”, si sfogò con l’amica, incontrata nella cartoleria sotto casa,  “E poi ho anche l’aggravante della pelle nera, Virna, te ne sei accorta?”, le chiese in tono scherzoso. Scoppiarono a ridere entrambe.

Professionalmente, Virna era stata più fortunata, forse perché la sua principale passione non ruggiva come un motore. Virna curava infatti diverse rubriche che trattavano di arredamento e giardinaggio. I suoi articoli venivano apprezzati sia dai redattori che dai lettori e non mancavano mai sulla sua scrivania lettere di uomini che le dichiaravano il loro amore, soprattutto dopo che il caporedattore aveva deciso di inserire in rubrica la foto del suo bel viso affusolato, dalla carnagione incarnata e dalla folta chioma rossastra. “Perché non chiedi al caporedattore di inserire una tua foto sul giornale?”, suggerì Virna  alla sua amica. Elisabeth corrugò la fronte “Non dire cretinate, non lo farebbe mai e poi sai bene come la pensa la gente, soprattutto quelli che non si perdono un solo articolo sulla politica. Meglio non si sappia che la firma E. L.  è quella di una donna … e  per di più di colore!”.  Virna sapeva che la sua amica aveva ragione e seppur a malincuore preferì cambiare argomento. “Domenica parteciperai?”, le chiese con il sorriso sulle labbra. Intorno ai suoi occhi si formarono alcune piccole rughe. Aveva appena compiuto quarant’anni, due i meno della sua amica, ma sembravano entrambe ragazzine.


“Certo”, rispose Elisabeth, “e come sempre scriverò un articolo che finirà sul fondo del cassetto della mia scrivania, insieme a tutti gli altri”.

Tirò fuori dalla borsetta il pass e lo mostrò alla sua amica “Dici che se ne accorgono?”

Partì  in treno un giorno prima dell’evento, voleva essere certa di arrivare con largo anticipo. Dormì in un albergo di periferia ed al mattino, con uno zaino sulle spalle e lo stomaco in subbuglio si presentò all’ingresso. Temeva che qualcosa sarebbe andato storto, sarebbe stato difficile spiegare le sue buone intenzioni in una lingua che a malapena conosceva. Le guardie controllarono il pass e dopo un lungo istante la fecero accedere all’area.
Ma non era ancora finita, Elisabeth voleva raggiungere i box anche se sapeva che non sarebbe stato facile. Le sarebbe piaciuto intervistare qualche uomo del Team Ferrari o vedere anche solo di sfuggita il grande Gilles. Ci teneva a scrivere un articolo accurato da riporre nel cassetto della scrivania nella sua camera da letto.  

“Fraulein, identifizieren Sie sich”… o almeno così le parve di sentire.

Elisabeth si voltò, un agente la fissava infastidito.

“Ho il pass”, gli rispose in un tedesco traballante porgendo il documento. L’agente lo prese in mano e lo guardò con attenzione “questo pass non le da il diritto di accedere ai box”, la apostrofò in italiano.

Elisabeth si scusò e si allontanò. Era inutile discutere e poi non voleva rischiare.

Si incamminò nell’area adiacente al circuito, nascondendosi come un ladro tra gli alberi.

Si sentiva in colpa, quella firma rubata da un documento ufficiale e riprodotta in controluce avrebbe potuto farle perdere il posto di lavoro. “Se il Signor Innocente lo scopre mi denuncia”,  aveva detto alla sua amica, “ma ben gli sta a quello stronzo e che si faccia un esame di coscienza: se tutti lo chiamano Colpevole un motivo ci sarà”.

Girovagò ancora un po’ e  finalmente trovò il posto ideale. Tolse lo zaino dalle spalle, lo adagiò sull’erba profumata, lo aprì  e lo svuotò con cura. Cannocchiale, telecamera e macchina fotografica vennero allineati su un grande masso, per essere utilizzati secondo le necessità.  Prese in mano il taccuino e attese, seduta su un piccolo cuscino che le aveva regalato suo padre quando era bambina e che portava sempre con sé, ogni volta che sapeva che avrebbe avuto bisogno di un sostegno fisico e morale. “Cosa potrò mai scrivere da qui”, si chiese. Tutto ciò che avrebbe visto sarebbe stato lo sfrecciare delle auto e solo grazie alla radiolina avrebbe potuto conoscere il reale andamento della gara. Unica nota positiva era la curva dello Schwetzakeaind “se non altro le macchine erano costrette a rallentare”, si disse. Guardò intorno a sè, i tifosi erano raggruppati nelle zone a loro dedicate, in lontananza un capannello di persone  sventolava delle bandiere rosse. Lei si sentì felice, felice di essere da sola in compagnia della sua passione.

 “Se solo quella testa di tamarindo del Signor Colpevole avesse ragionato , ora avrei il mio bel pass e me ne starei beata ai box a scrivere interviste e invece son qui, con un cuscino sotto al culo ad aspettare di veder sfrecciare qualche macchina sperando di riconoscere almeno la scuderia!”, pensò con rassegnazione Elisabeth.

Ciò che invece successe quel giorno nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Un’ombra improvvisa attraversò la pista, “Der Fuchs Schwetzakeaind” intitolarono i giornali, ma se si sia trattato veramente di una volpe nessuno lo saprà mai. Quel che è certo è che lei era lì, a due passi da quella curva dal nome impronunciabile,  seduta su un vecchio cuscino imbottito di ricordi, con un pass fasullo nello zaino, un taccuino in grembo ed una penna biro nella mano destra.

L’onda d’urto la colpì in pieno, il calore della gomma bruciata si mescolò a un denso fumo nero, cominciò a tossire, si sollevò da terra cercando di capire cosa fosse successo. Sembrava uno scenario di guerra.  Dalle auto accartocciate cominciarono a uscire i primi piloti, alcuni barcollavano, un uomo in tuta azzurra cadde per terra ma fu subito soccorso dagli altri piloti.  I rumori metallici si mescolarono alle voci concitate e al suono delle sirene sempre più vicine.  Erano passati pochi  minuti ma sembrava di vivere in un’altra dimensione, dove tutto si muoveva al rallentatore.  Idranti e barelle si incrociarono come rami di kiwi, divise bianche, tute rosse da pompiere e uomini in abiti civili popolarono la pista.

 “Dodici feriti di cui due gravissimi, ma pare non ci siano morti”, annunciò lo speaker radiofonico ed Elisabeth ancora frastornata e con gli abiti neri di fuliggine tirò un sospiro di sollievo.  Scattò foto attraverso la rete che la separava dalla pista, la telecamera appesa a tracolla captava le voci, i suoni, i rumori. Non poteva far nulla per alleviare il dolore ma poteva almeno descriverlo con l’ausilio del suo prezioso bisturi dalla punta a sfera.

 “Ho saputo che era presente”, le disse il caporedattore il giorno seguente. “Se le va di scrivere qualcosa saremo ben felici di leggere un Suo articolo ed eventualmente pubblicarlo”.

“Mi spiace Signor Innocente”, rispose Elisabeth, “ero troppo lontana e non ho visto nulla”.

Quella sera, nel silenzio della sua stanza, prese in mano gli appunti e scrisse il miglior articolo della sua vita, poi lo ripose nel cassetto, lo chiuse  a chiave e andò a dormire.

L’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa, avrebbe dovuto scrivere un pezzo sull’insediamento del Presidente Ronald Reagan, il suo caporedattore era stato categorico  “dobbiamo sfondare, dobbiamo battere la concorrenza,  non mi deluda”. – “Non la deluderò”, aveva risposto Elisabeth, consapevole che con i sogni non si paga la spesa ed ancor meno l’affitto.

La raccomandata della casa editrice alla quale aveva inviato una prima bozza del suo libro non tardò ad arrivare. Elisabeth era stata chiara fin da subito, “Questa sono io”, aveva scritto allegando una foto a colori scattata con la sua Polaroid. Aprì la busta con trepidazione, al suo interno un invito a presentarsi in redazione, poche righe e una postilla che la fece piangere di gioia “La ringraziamo per averci fatto sentire il profumo dell’erba ed il calore dei motori ”.

DISCLAIMER

I fatti narrati sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autrice. Nessun kiwi è stato maltrattato e nessun uomo o donna umiliato. Non me ne vogliano i familiari dei personaggi citati e qualora si sentissero in qualche modo offesi o presi in causa possono tranquillamente richiedermi la modifica o la rimozione del post.  Mi sento in dovere di ringraziare la mia compagna di blog che attraverso questo nostro corso “homeself” di scrittura creativa mi ha permesso di approfondire molti aspetti della Formula Uno e di rivivere parte della mia infanzia, trascorsa con mio papà davanti alla televisione in attesa del semaforo verde.
Peace and Love
.

La Cassa

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernest Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo con una cassa sulle spalle.

Socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco l’immagine. Dietro le colline, ad ovest della prateria, il sole emetteva gli ultimi bagliori prima delle tenebre.

“Ma è Karl !” esclamò tra i denti “che diamine ci fa qui a quest’ora!”

Attese pazientemente che l’ombra si materializzasse, non poteva rischiare che i vicini di casa lo sentissero, non voleva che la verità venisse a galla.

Aprì il portone del cancello e lo fece entrare, richiudendolo un attimo prima che la polizia passasse davanti casa.

“Ma sei matto? A quest’ora ci vedono tutti, eravamo d’accordo dopo il tramonto !

Ma Karl era su di giri:  erano giorni che aspettava quel momento e nulla e nessuno lo avrebbe fermato.

Prese la cassa e la adagiò con fatica davanti alla porta della cantina, non pensava potesse essere così pesante.

“Sicuro che nessuno ti abbia visto?”,  gli chiese, poi fissò la cassa “Cazzo, è uscito del liquido, è viscido,  guarda la tua giacca, è tutta rossa e poi puzzi da far schifo, vai a cambiarti!”.

Un galoppio risuonò lungo la strada. “Ci hanno beccati”, pensò un attimo prima che il suono degli zoccoli dei cavalli della polizia locale si perdesse in fondo alla via.

Karl si tolse immediatamente la giacca, aprì la porta dello scantinato e la gettò giù dalle scale rimanendo in maniche di camicia. Il cravattino risaltava sulla camicia chiara ed una piccola macchia rossastra si intravvedeva all’altezza della cintola.  Rabbrividì.

“Gli altri quando arrivano?”

L’impazienza di Karl iniziava a dargli sui nervi. Ernest era abituato a pianificare tutto, fin nei minimi particolari, anche nell’abbigliamento. Sapeva dei pericoli ai quali sarebbe andato incontro trasportando quella cassa e mai e poi mai avrebbe indossato qualcosa di chiaro. Il rischio di essere arrestati o, peggio ancora, di fare una brutta fine, si faceva sempre più concreto. Bastava leggere qualche giornale locale, ascoltare il sussurrio del popolo per comprendere come la polizia stessa avesse smesso da tempo di credere nel sistema giudiziario arrivando a farsi giustizia da sè. William H.,Eduard K., Paul B. erano solo alcuni degli uomini che quel giorno avevano lasciato questo mondo sotto il colpo delle baionette, rei di aver posto resistenza all’arresto.

Ernest Kazirra fissò Karl dritto negli occhi e con disapprovazione scosse la testa. “Come sempre, appena fa buio, dovresti saperlo”, rispose secco, guardando preoccupato la casa in stile ottocento che confinava con la sua proprietà. Attraverso gli scuri socchiusi si intravvedevano delle figure “dobbiamo fare attenzione, i Thompson si sono insospettiti”.

Non era la prima volta che trasportavano casse, ma non era mai capitato che fuoriuscissero dei liquidi. Dobbiamo stare più attenti, si disse, ripensando a quella volta che la polizia bussò alla porta di casa, insospettita da quegli strani rumori.

Karl si avvicinò alla recinzione sul retro della villa e scostò dei legni mettendo in evidenza un piccolo varco.  “Aspettiamo in cantina”, disse al padrone di casa.

La gente iniziò ad arrivare alla chetichella, passando attraverso quel passaggio segreto.  

Tre tocchi alla porta e poi subito la parola d’ordine: “Hover”. Per fortuna nessun infiltrato, pensò Ernest Kazirra, aprendo ogni volta la porta con circospezione.

Karl si piazzò sulle scale del seminterrato, il suo compito era quello della raccolta gli  oboli. Venti dollari per poter accedere, il resto in base alle necessità.

Ernest sollevò a fatica la cassa e la portò giù dalle scale, posizionandola insieme alle altre.

Prese uno straccio e pulì il lungo rivolo rosso.

La cantina iniziò a riempirsi di un denso fumo grigio, l’odore dei sigari impregnò gli abiti ed oscurò la luce della lampada ad olio.

Karl aprì la prima cassa e nell’aria si sollevò un urlo collettivo. Le mani iniziarono a rovistare nelle tasche e le banconote sgualcite fecero capolino trasformandosi via via in bandiere sventolanti.

“Due, dammene due”, “Io ne voglio tre”. “C’ero prima io, levati di mezzo!”.

Parevano insaziabili. Eppure il discorso del Presidente Roosevelt avrebbe dovuto calmare gli animi.

“Dammi quella bottiglia, bastardo, era mia!”. “Riempimi il bicchiere o ti spacco la faccia”,

Ernest Kazirra sospirò, l’imminente fine del proibizionismo stava minando le sue sicurezze, avrebbe dovuto reinventarsi, trovare soluzioni alternative che gli permettessero di mantenere la sontuosa villa che aveva appena finito di ampliare coi proventi della vendita illegale dell’alcol.

Guardò fuori dalla finestra, gli scuri dei vicini erano chiusi, il sole era sparito dietro alle colline E L’OMBRA DELLA NOTTE SCENDEVA.

− Sono preoccupato, mia moglie passa le sue serate da un bar all’altro.

− Ha il vizio di bere?

− No, ha il vizio di cercarmi.

Gino Bramieri

Quella volta che … part two (che fa tanto figo)

È cosa nota e universalmente conosciuta che due amiche che si vedono raramente , quando si incontrano per una vacanza , la vacanza stessa sarà indimenticabile.

È così è stato . Cinque giornate intense, trascorse all’insegna della spensieratezza, lontano dalle difficoltà della quotidianità. Cinque giornate dedicate al sano e puro divertimento. Cinque giornate alla Super Mario Bross (cit), con la partecipazione straordinaria di uno dei miei indiani che ancor oggi ricorda con piacere quelle giornate indimenticabili.

Perugia, Assisi, Gubbio, Spoleto, Norcia , Corciano, la scalata di Roccaporena, le piade, i cojoni di mulo e quelli de’ mi’ nonno, le risate, le chiacchierate , le abbuffate, la metropolitana sospesa, le scale mobili, la torta al formaggio, le colazioni in terrazza, la casa dei Baglioni, la torta al testo alla Cibottola, le nuotate in piscina, le partite a carte ed il favoloso RAFTING sul fiume Corno. 😁

Rafting. Quando Libera-mente me lo propose pensai che fosse leggermente fuori di testa (un po’ lo è, altrimenti non saremmo state amiche 😁). Ho sempre creduto che il rafting fosse qualcosa per capitani coraggiosi, per gente abituata a divertirsi a bordo di blue tornado e space vertigo e non per gente come me, che prima di salire sulla ruota panoramica si affida a tutti i Santi del Paradiso.

Eppure, quasi senza rendermene conto, mi son ritrovata al suo fianco con in mano una pagaia, alle spalle dieci minuti di lezione e addosso una muta in neoprene che neppure Naomi Campbell ai tempi d’oro avrebbe osato indossare.

Il resto è puro divertimento, documentato da decine di fotografie e videoregistrazioni: il salto sugli scogli , il gommone ingovernabile, le cadute nell’acqua corrente, le corde per non cadere nei punti critici, la rassegnazione dell’istruttore, le nuotate, ma soprattutto … il salto della cascata. Si agevoli il filmato, pliiiiis ❤️

P.s. Certo, lo sappiamo , ad un certo punto il filmato si blocca , ma da perfette Naomi mancate, col cavolo che postiamo i nostri cosciotti avvolti come salami sul blog !

Ricordo di sapori perduti …

Oggi delle semplici zucchine hanno avuto il potere di trasportarmi in un viaggio tra i ricordi e i sapori perduti. Ero intenta a farle a rondelle che mi è tornato in mente quando le preparava mia mamma, fresche appena colte dall’orto, e mia nonna che le diceva “Te cucinale pure, ma io non le mangio, mi fanno sentire freddo”.

Il freddo che sentiva mia nonna, in realtà era il ricordo di quando cucinava zucchine in tutti i modi per sfamare i suoi figli, non erano una famiglia benestante, lei era vedova ed aveva sei figli da crescere, le zucchine, in estate, insieme alle patate andavano alla grande, così raccontava lei. Ad un certo punto, quando la situazione migliorò, disse “basta zucchine” ed ogni volta che le venivano proposte “No grazie, mi fanno sentire freddo”, però non disse mai basta alle patate. Queste ultime in casa di mia nonna sono sempre state il piatto per eccellenza. Capitava spesso che con i miei cugini (oltre 11 monelli quasi tutti coetanei) ci trovavamo insieme a casa sua e lei in un batter d’occhio, se non c’erano i maritozzi con la Nutella, ci allestiva merende a base di patatine fritte (i dietologi infantili oggi griderebbero all’orrore). Le più buone che ricordo di aver mangiato. Quelle del Mac Donald o qualunque friggitoria “non si avvicinano nemmeno lontanamente alle patatine che friggeva la nonna”, parola di “cugini uniti”. Erano inimitabili, si! Avevano il sapore della felicità, dei giochi, del chiasso e dell’allegria. Gliele rubavamo man mano che friggeva e lei divertita, nella sua immensa cucina, ci inseguiva intorno alla tavola fingendo di volerle riprendere.

Tornando alle zucchine, benchè mia nonna non le mangiasse, quelle di mia mamma avevano il loro perchè. Che le facesse fritte o in padella con aglio e rosmarino o ripiene di carne erano sempre super e per quanto io mi possa adoperare a mettere in pratica i suoi suggerimenti, per il mio palato, i miei piatti a base di zucchine non sono mai all’altezza di quelli che preparava lei. Quando poi li assaggio, quasi, quasi fanno sentir freddo anche a me.

Mia mamma era una maestra nel cucinare qualsiasi cosa, lo faceva con passione. Quando voglio replicare qualche suo piatto cerco di rivederla in cucina mentre li prepara, e provo a rifare i suoi stessi passaggi, difficilmente sono soddisfatta del risultato. Nonostante ricevo complimenti dai commensali sento che il sapore non è lo stesso, si avvicina soltanto. Forse aveva qualche ingrediente magico o magico era il suo tocco.

Tra tutte le cose buone che preparava mia mamma, tra tutti i sapori perduti insieme a lei, ce n’è uno che non sono mai riuscita a replicare quello del “caffè-latte”, tanto semplice da fare ma tanto complicato da fare come il suo, che era perfetto! Era giusta la temperatura, il dosaggio del latte e del caffè e, poi, me lo versava in un bicchiere di vetro. Ho comprato la moka come ce l’aveva lei, lo stesso pentolino che usava lei per scaldare il latte e i bicchieri come i suoi, ma non sono mai riuscita a replicare lo stesso gusto, non riesco ad andarci nemmeno vicina. Per anni ho provato e riprovato a rifarlo, ma niente, ricetta ineguagliabile. Ogni tanto per consolarmi le telefonavo e le dicevo “Mami passo a prendere il caffè-latte da te” e la soddisfazione di berlo in sua compagnia era enorme. Solo dopo che lei, purtroppo, se n’è andata ho capito cosa avesse il suo caffè-latte in più del mio … l’aroma di coccole che, sicuramente, metteva di nascosto e quel sapore di casa natia che non si può dimenticare.

Ci sono momenti in cui una luce particolare ti avvolge
e i ricordi si aprono,
e all’improvviso senti l’aria di un altro luogo, di un altro mese, di un’altra vita.
(Fabrizio Caramagna)

Hashtag

Ve lo ricordate, vero, quando si passavano le giornate hastaggando qualunque parola capitasse a tiro ?

#iorestoacasa #insiemecelafaremo #andratuttobene sono stati alcuni dei leitmotive che ci hanno accompagnato nel corso di questa surreale primavera trascorsa tra timori, ansie, gioie e rassegnazioni.

Ci incoraggiavamo a vicenda, ci spronavamo affinché si trovassero dei lati positivi che potessero sovrastare il dolore che ci circondava. Eravamo avvolti in un’aura oscura e per dissiparla ciascuno di noi aveva adottato differenti modalità, in una sorta di istinto di sopravvivenza.

Ma cosa ci ha insegnato tutto ciò ? Non parlo da un punto di vista pratico: igiene, prevenzione e distanziamento sono diventati una routine . Non mi riferisco neppure alle prestazioni culinarie, seppur notevoli .

Mi riferisco invece a qualcosa di più profondo, che coinvolge il lato umano di ciascuno di noi e che ci ha permesso di sentirci vicini seppur lontani.

”Diario di una quarantenne…ooops quarantena” nasce proprio con questo intento: avvicinarsi, condividere, supportarsi, confrontarsi e non solo tra me e la mia “compagna di scarpe” Libera-mente, ma anche con tutte le persone che in un modo o nell’altro abbiamo avuto il piacere di incrociare e con le quali stiamo piacevolmente interagendo .

“Diario di …” (Socia, un nome più corto pareva brutto ?) è stato e continua ad essere il nostro flash mob, meno plateale ma altrettanto funzionale . È la nostra finestra sul mondo, il nostro balcone, la nostra terrazza, non per essere viste da altri ma per vedere noi stesse il mondo che ci circonda attraverso innumerevoli punti di vista.

Vorrei quindi ringraziare i nostri nuovi amici. Non taggo nessuno, non serve, preferisco invece che i ringraziamenti cadano a pioggia raggiungendo un po’ tutti .

Lo so, lo so, oggi sono in modalità mielosa, a livelli quasi diabetici, ma tranquilli che da domani torno in modalità strunz 🤣🤣🤣🤣 altrimenti neppure la mia tribù mi riconosce più 😁

Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia.
(Epicuro)

Il cappello dei desideri.

… e poi arriva il giro di boa, tu lo doppi senza nemmeno rendertene conto, troppo impegnata a star dietro alla tribù, ai genitori anziani, al lavoro, alla casa, ai problemi familiari, a Bin Laden, alla fame nel mondo, alle cavallette. Quando finalmente apri gli occhi ti rendi conto che nel giro di pochi anni la tua vita si è completamente stravolta, ha preso una piega differente e tu ne sei felice . Guardi il tuo metro biologico e conti le tacche, una due tre , trenta quaranta cinquanta e poi cinquantuno , cinquantadue cinquantatré, cinquantaquattro…

Cominci a fare il punto della situazione, riflettendo su ciò che la vita ti ha donato, su ciò che hai fatto e su ciò che ti sarebbe piaciuto fare e inizi ad accantonare i desideri irrealizzabili (pilotare un aereo, girare un film con Toretto, mangiare senza ingrassare ) e a tirar fuori dal cappello magico tutto ciò che potrebbe diventare realtà :

– visitare Canada e California

– ristabilire amicizie preziose

– prenderti realmente cura di te stessa

– trovare nuovi spunti per essere felice, nonostante tutto e tutti

– tornare sui banchi di scuola

Inizi quindi a lavorarci su, rimboccandoti le maniche, prendendo il toro per le corna, come si dice dalle mie parti.

Cent’anni fa il giro di boa rappresentava la fine di tutti i sogni . Oggi è un nuovo inizio .

Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso . (Nelson Mandela)

La mia Sindaca è differente .

Nel mio paesello di quindicimila anime ubicato in piena pianura padana, il Sindaco, anzi “la Sindaca”, è molto attenta alla problematica Covid-19.

Il numero di contagiati, grazie anche alla politica ferrea messa in atto dall’amministrazione comunale, non è stato particolarmente rilevante, considerando che si è attestato intorno allo 0,3% della popolazione.

Ora finalmente siamo nella fase “tana liberi tutti” (Cit.) e seppur con le dovute cautele possiamo tornare a vivere .

Cosa mi spinge pertanto a scrivere questo articolo ?

L’incoscienza della nostra Sindaca. Si, proprio quella Sindaca per la quale un attimo fa ho tessuto le lodi!

L’amministrazione comunale ha infatti deciso di procedere ad una nuova distribuzione gratuita di mascherine, due per famiglia… convocando la popolazione in piazza!

Certo, non tutti insieme appassionatamente, ma in quattro scaglioni. Ora, non sono un matematico, ma i conti son presto fatti . Ovviamente per evitare che i soliti furbetti se ne approfittino, sarà necessario presentarsi muniti di tessera sanitaria e la consegna avverrà previa verifica e registrazione .

Come rimpiango i giorni della quarantena , quando i volontari suonavano i campanelli, mettevano le mascherine nella cassetta delle lettere e scappavano via… Sembrava quasi di essere tornati bambini !

P.s. Questa mattina, dovendo scegliere tra l’assembramento in piazza e quello al supermercato, ho scelto il secondo. Se non altro potrò tornare a impastare come se non ci fosse un domani . E le mascherine ? La domanda sta calando, i supermercati ne sono pieni e i costi più che accessibili. Personalmente non ritengo indispensabile fare lunghe code sotto il sole per ritirare il proprio pacchetto regalo .

La torta perfetta

A giorni uno dei miei indiani compirà gli anni e nonostante sia arrivato alla terza decade e risieda altrove con la sua compagna, la festa di compleanno (quasi) a sorpresa non mancherà .

So già che trascorrerò due giorni in cucina, organizzando tutto fin nei minimi dettagli ma per la torta di compleanno preferisco rivolgermi ad un professionista , come ho sempre fatto con tutta la tribù .

Tipologia, gusto e guarnizioni sono già stati stabiliti , manca solo la scritta decorativa e qui arriva la parte più difficile : cosa scrivere che non sia la solita banalità ?

Dopo averne parlato per ore (ok, dieci minuti) con gli altri indiani ho deciso di affidarmi a Google .

Di frasi “pronte”, d’effetto, non banali, carine, brevi e adatte a lui, a noi, agli amici , all’occasione, al giorno, all’umore e all’evento non ne ho trovate . In compenso ho trovato una carrellata di torte che aiuta a comprendere il motivo per cui è cosa buona e giusta che le pasticcerie esistano ! Buona visione 😁

.. che buona torta… proprio come solo mamma sapeva comprare!
(Stuart Pankin)

Namaste’

“L’ottimismo è il profumo della vita”. Tonino Guerra non aveva dubbi e lo ripeteva ogni giorno, entrando nelle nostre case e nella nostra mente in punta di piedi , con una sorta di tormentone che ancora oggi viene citato con affetto anche dai più giovani.

In questi cento giorni di quarantena ho cercato di seguire il suo consiglio, mantenendomi serena e guardando al futuro con ottimismo nonostante risieda in piena Lombardia ad un tiro di schioppo dalle primissime “zone rosse” .

Le notizie contrastanti che giungevano stavano rischiando di trascinarmi in un vortice dal quale sarebbe stato difficile uscirne.

È per questo che in un momento così delicato ho cercato mille escamotage pur di non passare ore ed ore davanti alla tv, tra un telegiornale, una diretta o uno speciale della D’Urso.

Complice il corso di yoga iniziato lo scorso autunno e sospeso a causa dell’emergenza sanitaria, ho iniziato a seguire su YouTube “la scimmia yoga”. Fin dalle prime lezioni Sara Bigatti mi ha conquistata con la sua semplicità riuscendo a trasmettermi la vera essenza dello yoga , che va ben oltre la disciplina fisica .

La mia prima volta in Shavasana non è stata una passeggiata . Mantenere l’immobilita’ assoluta anche solo per dieci minuti consecutivi non è così facile . Viviamo in un’epoca frenetica e rimanere sdraiati a terra, su un tappetino, ci sembra quasi di portar via tempo a mille altre attività : c’è da lavare, stirare, cucinare, leggere, parlare, vivere. Ero presa dai sensi di colpa : la mia tribù (adulta!) sta aspettando che torni a casa per cenare ed io son qui, sdraiata su un tappetino e quasi quasi mi addormento .

Ma col passare del tempo ho compreso quanto sia importante entrare in contatto con se stessi, concentrandosi sul proprio respiro, sul proprio corpo, sulle sensazioni del momento , accantonando qualunque altro pensiero.

Il lavoro, i figli, la casa… tutto passa in secondo piano, anche solo per dieci minuti . Dieci minuti di intenso relax che ricaricano il corpo ma soprattutto l’anima .

Namaste’ 🙏

Lasciarsi andare è l’asana più difficile (Anonimo).

A-ri-Namaste’

La tribù dei piedi zozzi.

Amo la mia tribù😍

Quando i miei figli erano piccoli mia madre li chiamava “la tribù dei piedi zozzi”, il motivo mi pare ovvio e non ha nulla a che vedere con le mie qualità genitoriali . La routine serale, come potete immaginare, era particolarmente complessa e prevedeva un lavaggio collettivo nella vasca da bagno, il che mi permetteva di ottimizzare i tempi e di tenerli sott’occhio evitando che si affogassero a vicenda.

Il colore dell’acqua, dopo un primo ammollo, era la cartina di tornasole della loro felicità: più la tinta si accostava al marrone più la loro giornata era stata intensa .

Ora sono adulti. Quando si lavano , quando escono, dove vanno , cosa fanno … non è più affar mio anche se come genitore tengo sempre gli occhi aperti, pronta ad aiutare qualora me lo chiedessero.

“Geronimo”, il più grande della tribù , ha levato le tende ad inizio quarantena per andare a vivere in pianta stabile con la sua “squaw” ed io da quel giorno vivo sentimenti contrastanti : da un lato mi manca la routine pranzo/cena/chiacchierate/incazzature, dall’altro tiro un sospiro di sollievo perché ho un po’ più di tempo da dedicare a me stessa (ed è giusto che sia così).

Tutto questo incipit per arrivare alla chat di oggi, con la mia amica, compagna di scarpe e di blog “Liberamente”, anche lei tre volte mamma .

Grazie Liberamente, che mi hai aiutata a togliermi i sensi di colpa 😁, ora possiamo tornare a cazzeggiare 😁

“Un bambino diventa adulto quando si rende conto che non ha diritto solo ad aver ragione ma anche ad aver torto.”