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Cena di classe …

ed è subito ansia.

Una vita, decisamente una vita che non vedo e sento i  compagni della mia classe al liceo. Ci  salutammo una mattina di inizio luglio davanti ai quadri, esposti nell’androne della scuola,  commentando i voti della maturità e non ci siamo più ritrovati. Quel giorno le nostre strade si divisero per sempre ed ognuno di noi si avviò ad inseguire i suoi  sogni. Non siamo mai stati una classe particolarmente unita, quindi non cercarsi più, in tutti questi anni, è stato naturale. Di alcuni di loro mi sono anche dimenticata nomi e volti, anche la mia compagna di banco, di tutti e cinque gli anni, è svanita nel nulla, non l’ho mai incontrata nemmeno per caso.

Poi, un pomeriggio all’improvviso, mi ritrovo in un gruppo Whatsapp ed eccoli che riappaiono tutti, come se non fosse passato nemmeno un giorno.
Vogliono organizzare una cena di classe. Scrivono, scrivono di ricordi, momenti che abbiamo vissuto, parlano tra loro come se fossero ancora in classe, mi sento un pesce fuor d’acqua.
Non ricordo nulla o quasi nulla, per tanti motivi, benchè il liceo mi sia piaciuto molto, ho rimosso quegli anni, non li ho mai ritenuti  il  periodo più interessante della mia vita.

Ho imbarazzo a scrivere nella chat della “mitica sezione” e non posso non chiedermi cosa avesse di mitico.  Mi sento lontana da loro, ero timida allora e mi ritrovo, almeno con loro, timida anche oggi.
Non so cosa hanno fatto in tutti questi anni, non conosco i loro traguardi, non so se hanno dei figli, dei mariti, delle mogli, non so se ho voglia di rivederli, di passare una serata con loro, di raccontargli di me. Forse è la paura di confrontarmi con la me di allora, sono in ansia. No, non so se parteciperò alla cena, che senso può avere dopo tutti questi anni?

Arriverà la fine ma non sarà la fine, sarà un gruppo WhatsApp degli ex compagni di scuola.
(dudek_kvar, Twitter)

Allora?

presumo che si possa anche celebrare un matrimonio, a fine giugno, con 150 invitati tutti ben distanziati senza che nessuno venga a rompere gli zebedei?

Non sarebbe giusto e sacrosanto che a tutte le coppie che stanno rimandando le nozze, alcune per il secondo anno di seguito, a causa del Covid sia concesso di festeggiare come meglio credono?

No, non lo è e, secondo le linee guida stilate dalle regioni, perché il Governo non si è pronunciato su eventuali riaperture per le cerimonie, sono molteplici gli aspetti di cui dovranno tenere conto se volessero organizzare una cerimonia … distanziamento, guardaroba, servizio ai tavoli …

mantenere l’elenco dei partecipanti per un periodo di 14 giorni; di riorganizzare gli spazi, per garantire l’accesso alla sede dell’evento in modo ordinato, al fine di evitare assembramenti di persone e di assicurare il mantenimento di almeno 1 metro di separazione tra gli utenti, sarebbe meglio “organizzare percorsi separati per l’entrata e per l’uscita.
Disporre i tavoli in modo da assicurare il mantenimento di almeno 1 metro di separazione tra i clienti di tavoli diversi negli ambienti al chiuso (estendibile ad almeno 2 metri in base allo scenario epidemiologico di rischio) e di almeno 1 metro di separazione negli ambienti all’aperto (giardini, terrazze, ecc), ad eccezione delle persone che in base alle disposizioni vigenti non siano soggetti al distanziamento interpersonale”, come i conviventi. Tali distanze possono essere ridotte solo con barriere fisiche di separazione. Laddove possibile bisogna “privilegiare l’utilizzo degli spazi esterni (es. giardini, terrazze), sempre nel rispetto del distanziamento di almeno 1 metro”.
Gli ospiti, dovranno indossare la mascherina negli ambienti interni (quando non sono seduti al tavolo) e negli ambienti esterni (qualora non sia possibile rispettare la distanza di almeno 1 metro). Il personale di servizio a contatto con gli ospiti deve “utilizzare la mascherina e deve procedere ad una frequente igiene delle mani con prodotti igienizzanti”. Inoltre, è possibile organizzare una modalità a buffet mediante somministrazione da parte di personale incaricato, escludendo la possibilità per gli ospiti di toccare quanto esposto e prevedendo in ogni caso, per ospiti e personale, l’obbligo del mantenimento della distanza e l’obbligo dell’utilizzo della mascherina a protezione delle vie respiratorie.
La modalità self-service può essere eventualmente consentita per buffet realizzati esclusivamente con prodotti confezionati in monodose. In particolare, la distribuzione degli alimenti dovrà avvenire con modalità organizzative che evitino la formazione di assembramenti anche attraverso una riorganizzazione degli spazi in relazione alla dimensione dei locali e dovranno essere valutate idonee misure (es. segnaletica a terra, barriere, ecc.) per garantire il distanziamento interpersonale di almeno un metro durante la fila per l’accesso al buffet.
Per eventuali esibizioni musicali da parte di professionisti, si rimanda alle indicazioni contenute nella scheda specifica e in ogni caso devono essere evitate attività e occasioni di aggregazione che non consentano il mantenimento della distanza interpersonale di almeno 1 metro. È “obbligatorio” mantenere aperte, a meno che le condizioni meteorologiche o altre situazioni di necessità non lo consentano, “porte, finestre e vetrate al fine di favorire il ricambio d’aria naturale negli ambienti interni”. “In ragione dell’affollamento e del tempo di permanenza degli occupanti dovrà essere verificata l’efficacia degli impianti al fine di garantire l’adeguatezza delle portate di aria esterna secondo le normative vigenti”. Nei guardaroba gli indumenti e oggetti personali “devono essere riposti in appositi sacchetti porta abiti”

Tutte regole giuste ed è doveroso che ci siano, ma forse per gli aspiranti sposi meglio rimandare le nozze, che se per caso ne sgarrano una saranno costretti a prendere un mutuo per pagare la multa o magari vendersi la casa appena comprata, sempre che l’abbiano comprato, cosa non facile in questi tempi.

Inoltre, c’è la possibilità di mettere in difficoltà gli invitati, specialmente i più anziani, perché non tutti sono così convinti, considerata la situazione, di partecipare ad un matrimonio. Non sono pochi coloro che dicono “Certo con questo virus” “Aspettiamo e vediamo come andrà” “Un pò di paura c’è” ed una di queste persone sono proprio io. Purtroppo non sono interista, ne romanista, ne juventina (anche se il problema non è la squadra ma il contesto) e ho una paura fottuta di questo virus, specialmente dopo che ieri un mio conoscente di 50 anni, sano come un pesce, è finito in terapia intensiva.

Mio figlio ha rimandato, purtroppo ci sarà un aumento dei costi, ma “Fanculo ai soldi” dice lui “mi sposo una volta sola” – “sperem” penso io – “e voglio una festa che sia una festa e non un funerale”. Come dargli torto?

Massì fanculo ai soldi (anche se sinceramente il culo mi gira un pò) ma VIVA L’INTER tutta la vita … del resto, non sono esperta di calcio, anche lo scudetto mi pare si vinca una volta sola o no?


 

Storia di “EL”

Faccio una breve premessa. Il racconto che segue e il precedente della mia socia, L’evento, nascono da un esercizio che ci chiedeva di giocare con le lettere e i numeri di una targa: usare le lettere per il nome di un personaggio, i numeri per l’età, il colore per stabilire il sesso, nel nostro caso donna, e, quindi, inventare una storia.

La mia socia ha preso l’esercizio seriamente, io ho cazzeggiato, ma ultimamente ho bisogno di essere poco seria.

Storia di “EL”

EL, è così che la chiamano tutti da quando è nata ed anche se il suo nome è Esmeralda Lombardozzi lei preferisce di gran lunga essere EL. Veloce, immediato, diretto, perché un conto è dire “Piacere sono EL”, altra cosa dire “Piacere sono Esmeralda Lombardozzi”.  Da piccola, in particolare, odiava dirlo tutto per intero tanto che alla fine doveva sempre riprendere fiato per la fatica nel pronunciarlo. Inoltre, prima di essere Esmeralda, era stata Meradda, Emmeradda, Smeradda e c’erano voluti milioni di tentativi per diventare E s m e r a l d a, mentre essere EL era stato semplicissimo ed anche ora, ormai grande, continuava ad evitare il più possibile “Esmeralda Lombardozzi”.

È una buffa storia del perché la chiamino EL. È sicuramente vero che EL sono le iniziali del suo nome e cognome, ma ciò successe per una serie di strane coincidenze che diedero vita ad una vicenda tragicomica che coinvolse suo padre, Emilio Lombardozzi, il giorno in cui accompagnò sua moglie, in preda alle doglie, in ospedale per partorire.

I due non arrivarono in tempo ed Esmeralda nacque al semaforo di un incrocio tre isolati prima dell’ospedale, in mezzo al traffico ed ai clacson strombazzanti, con un’auto straniera, con la sigla EL nella targa, ferma davanti a loro che bloccava tutto. La signora alla guida aveva terminato la benzina.

A nulla erano valsi i tentativi poco pacifici di papà Lombardozzi di far capire alla signora che aveva fretta e che l’auto in qualche modo andava spostata. Oltre non capire, non voler scendere e nemmeno voler aprire la portiera, alle urla del sig. Lombardozzi “EL42 spostati mia figlia sta per nascereee!!!”, lei spaventata rispondeva soltanto “Police! Police!”

Con quell’auto piantata li, che non andava né avanti né indietro, bloccato nell’ingorgo del semaforo, con la signora Lombardozzi che urlava di non farcela più e che la bambina stava per nascere, Emilio Lombardozzi, che continuava a gridare “EL accidenti spostati, EL ma che fai togliti dal cazzo!”, divenne padre. Un vagito, insieme alle grida della signora Lombardozzi “EL brutta imbecille resta pure dove sei … è nataaaa!”, glielo annunciarono e, dopo aver replicato “E’ nata?” – mentre guardava quella bimba minuscola adagiata sul tappetino dell’auto tutta sporca e con il cordone ancora attaccato alla mamma – iniziò a ripetere quello che diventò il mantra che da ben 42 anni ripeteva ad ogni successo di EL “EL è fatta!”, per fortuna EL era una salutista, non beveva e non fumava, perciò nessuno aveva motivo di fraintendere il mantra del papà.

Si, era fatta! La bimba era nata, furono gli operatori dell’ambulanza accorsa sul posto a tagliarle il cordone ombelicale, sollevarla, avvolgerla con un lenzuolino, soccorrere la mamma e portarle entrambe in ospedale, mentre il papà ancora sotto choc continuava a dire “EL è fatta!”

Fu il papà a scegliere Esmeralda quando gli fu chiesto che nome volevano darle. Era sicuro che quel batuffolino rossiccio come la mamma, da grande, avrebbe avuto anche gli occhi verdi come la mamma, verdi come uno smeraldo, ma si sbagliò di grosso, gli occhi si rivelarono castani. Non poteva, inoltre, dimenticare la coincidenza delle lettere sulla targa dell’auto ferma davanti alla loro “EL” “Emilio Lombardozzi” “Esmeralda Lombardozzi”. No, non si poteva non tenerne conto. Suo papà e sua mamma credevano molto alle coincidenze, al destino e riuscivano a trovare un senso anche alle casualità più strane, mentre lei diceva di essere EL a causa di un pieno di benzina mancato.

Cosa era passato per la testa dei suoi genitori per scegliere quel nome? Se doveva essere un nome che iniziava per E ce n’erano sicuramente di più semplici: Elena, Edera, Elisa … ecco avrebbe voluto essere Elisa, Elisa Lombardozzi … più semplice, elegante anche se con quel cognome trovare l’eleganza non era facile e poi conosceva un’Elisa molto carina e dolce; si avrebbe proprio voluto essere Elisa. Insomma Esmeralda è un nome impegnativo e le sembrava stonato ed anche troppo lungo vicino a Lombardozzi ed inoltre, a dirla proprio tutta, pensando alla triste sorte dell’Esmeralda di Victor Hugo, le veniva da pensare che portasse anche un po’ sfiga. Dio come odiava questa cosa di dare un nome ai figli senza tenere conto del cognome, non che dovessero fare coppia nome e cognome, non avrebbe mai chiamato una figlia Rosa se il cognome fosse stato Chiappa, ma un po’ di armonia tra loro doveva esserci.

È il giorno in cui il marito, Enrico Taddei, la sta accompagnando in ospedale per dare alla luce il loro primo figlio, quello in cui EL, dopo aver notato, proprio davanti a loro, un’auto con la targa che inizia con ET84, ripensa alla storia della sua nascita come, tante volte, le è stata raccontata. Sorridendo pensa a quanto sa essere bizzarra la vita, ma nemmeno la più strana delle coincidenze potrà mai convincerla a dare a suo figlio i nomi Eugenio, o Ettore, o Ernesto, o qualsiasi altro con la E, è inimmaginabile una vita da ET!

Le lettere del proprio nome hanno una terribile magia, come se il mondo fosse composto di esse. Sarebbe pensabile un mondo senza nomi?

(Elias Canetti)

N.b.: ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, il tutto è frutto della mia immaginazione.

L’Evento

Elisabeth Lemsh uscì dall’ufficio stringendo la sua preziosa valigetta scamosciata piena di articoli scritti a mano, non aveva intenzione di piangere, lo aveva fatto troppe volte. La delusione nel corso degli anni aveva lasciato posto alla rabbia. “Si rassegni”, le disse il suo caporedattore, “provi a scrivere di moda e folclore o continui con la politica, ma lasci perdere tutto il resto, mi dia retta, è meglio così”.
“Abbia almeno il coraggio di darmi delle motivazioni” rispose Elisabeth esasperata. Non vi fu una vera risposta, se non un balbettio di considerazioni che vertevano intorno ad un unico argomento “sei una donna, comportati da donna!”.


Certo, pensò quella sera Elisabeth guardandosi nello specchio della sua camera da letto, sono una donna, ma il problema non è solo questo. Si accarezzò i lunghi capelli ricci, prese un foulard color sabbia e li avvolse con cura, come le aveva insegnato sua mamma sin da quand’era bambina. Si asciugò una lacrima che scorreva sulla guancia color cioccolato e avvertì sotto ai polpastrelli l’elasticità della pelle priva di rughe “Sono una donna e per di più di colore” disse ad alta voce, fu quasi un urlo,  come a voler allontanare da sé tutto ciò che non le permetteva di sentirsi realizzata.

Eppure l’ultimo anno di liceo suo padre l’aveva avvisata “forse è meglio se scegli medicina, avresti maggiori opportunità”. Ma Elisabeth fu inamovibile, non sarebbe mai riuscita a tenere in mano un bisturi con la stessa disinvoltura con la quale teneva in mano una penna. “Pa’ Swahili”, rispose fiera, “la medicina non fa per me, io voglio girare il mondo, conoscere persone, imparare le lingue, voglio scrivere, scrivere e ancora scrivere, non sarò mai in grado di guarire un dolore ma voglio imparare almeno a descriverlo”. Suo padre annuì, comprendeva le sue necessità e non aveva alcuna intenzione di tarparle le ali.

Swahili Lemsh era arrivato giovanissimo Italia in qualità di diplomatico per il Consolato Ghanese portando con sé sua moglie Muskeba incinta di pochi mesi. Erano passati tanti anni da quel giorno, sua figlia aveva frequentato le scuole pubbliche, presto si sarebbe iscritta all’università e Swahili non si era mai pentito delle proprie scelte. Non era stato facile lasciarsi alle spalle i propri cari in un paese perennemente in guerra per arrivare in un altro Paese altrettanto problematico, l’Europa era sul punto di esplodere, Polonia e Germania erano arrivati ai ferri corti e nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo, ma Swahili era un uomo determinato e grazie alle proprie capacità riuscì ad affermarsi in un mondo che non gli apparteneva e che dava più importanza al colore della sua pelle che non alle sue capacità.

Elisabeth  si sfilò gli stivali e li abbandonò in un angolo della stanza,  appoggiò  la valigetta scamosciata su una mensola,  non aveva voglia di aprirla, sentiva solo la necessità di riposare. Si sdraiò sul letto con il foulard color sabbia ancora tra i capelli e si lasciò andare  ancora  una volta ai ricordi di quand’era poco più che bambina.

“Domenica mattina andremo a Monza”, disse suo padre mentre facevano colazione. Elisabeth lanciò un urlo di gioia, lasciò cadere per terra il quaderno di algebra sul quale stava annotando gli ultimi esercizi prima di andare a scuola e gli saltò in grembo, abbracciandolo. I giornali avevano annunciato l’imminente inaugurazione del nuovo autodromo, ristrutturato dopo il periodo bellico. Swahili, in qualità di diplomatico, era riuscito a farsi rilasciare un pass; non era stato facile anche perché la presenza di Gronchi rendeva molto selettiva la scelta degli invitati. Era a conoscenza ed avallava la passione di sua figlia per il mondo delle auto da competizione e pertanto nel corso degli anni le aveva regalato diverse riviste specializzate che Elisabeth leggeva con bramosia, annotandone i punti salienti su un quadernetto che custodiva gelosamente sotto al materasso della sua cameretta e che abbelliva con riproduzioni dei principali autodromi sia italiani che esteri, realizzati a mano libera. “Pa’ Swahili, ti prego, fammi incontrare Manuel Fangio”, gli chiese quel giorno con sguardo implorante.

Un raggio di sole la svegliò, indossava ancora gli abiti del giorno prima ma il foulard che contornava il suo bel viso era scivolato sul pavimento di marmo. Guardò l’orologio e si stupì, erano anni che non dormiva così profondamente. Per un attimo tornò con la mente all’autodromo, poi si fece forza, si alzò e mise sul fornello una moka di caffè. Si sedette in un angolo della sala fissando l’unico quadro che abbelliva la stanza. Una cornice di legno leggermente intarsiata ed una semplice lastra di vetro incorniciavano il suo bene più prezioso: un foglio di carta leggermente stropicciato. Erano passati tantissimi anni da quando un uomo in polo e giubbotto da lavoro le regalò un sogno “A Elisabeth, segui sempre i tuoi desideri e non lasciarti intimorire dagli eventi. Manuel Fangio”. Non le era sembrato vero, ma quel giorno El Chueco era lì, davanti a lei, le parlava, parlava a lei, proprio a lei e le porgeva un foglio di carta con una dedica speciale, scritta appositamente per lei, per una bimba di colore dai lunghi capelli ricci. “Grazie Pà Swahili, grazie per aver esaudito il mio desiderio”, disse mentre con mano tremante prendeva dalle mani del suo idolo quel foglio di carta stropicciato.

La caffettiera iniziò a sobbollire e nella stanza si avvertì un gradevole aroma di caffè. Elisabeth spense il fornello e riempì la tazzina. “Se fosse stato di un altro colore non sarebbe stato caffè”, pensò fissando la bevanda nera e fumante “Sarebbe stata comunque una bevanda piacevole, ma non sarebbe stato caffè”. Con la tazzina nella mano sinistra si avvicinò alla finestra e fissando il cielo accostò  l’altra  mano alle labbra e distaccandola lentamente lanciò un bacio “Buongiorno Pa’ Swahili,  ovunque tu sia”. Accese la radio ed ascoltò le notizie che arrivavano da Oltreoceano, poi prese carta e penna e iniziò ad abbozzare un articolo. Se Ronald Reagan fosse stato eletto voleva aver pronto un pezzo da consegnare in tempo reale al suo caporedattore. “Lasci stare tutto il resto”, le aveva detto quello stronzo il giorno prima. No, Elisabeth non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle proprie aspirazioni e ogni volta che veniva presa dallo sconforto ripensava a quel foglietto stropicciato conservato con cura come fosse una reliquia.

 “E’ inutile, Virna, la redazione sportiva neppure li legge i miei articoli. Seppur con un giro di parole, quello stronzo mi ha detto che a nessun lettore di riviste specializzate interessa un articolo scritto da una donna, come se noi donne non sapessimo nulla di automobili”, si sfogò con l’amica, incontrata nella cartoleria sotto casa,  “E poi ho anche l’aggravante della pelle nera, Virna, te ne sei accorta?”, le chiese in tono scherzoso. Scoppiarono a ridere entrambe.

Professionalmente, Virna era stata più fortunata, forse perché la sua principale passione non ruggiva come un motore. Virna curava infatti diverse rubriche che trattavano di arredamento e giardinaggio. I suoi articoli venivano apprezzati sia dai redattori che dai lettori e non mancavano mai sulla sua scrivania lettere di uomini che le dichiaravano il loro amore, soprattutto dopo che il caporedattore aveva deciso di inserire in rubrica la foto del suo bel viso affusolato, dalla carnagione incarnata e dalla folta chioma rossastra. “Perché non chiedi al caporedattore di inserire una tua foto sul giornale?”, suggerì Virna  alla sua amica. Elisabeth corrugò la fronte “Non dire cretinate, non lo farebbe mai e poi sai bene come la pensa la gente, soprattutto quelli che non si perdono un solo articolo sulla politica. Meglio non si sappia che la firma E. L.  è quella di una donna … e  per di più di colore!”.  Virna sapeva che la sua amica aveva ragione e seppur a malincuore preferì cambiare argomento. “Domenica parteciperai?”, le chiese con il sorriso sulle labbra. Intorno ai suoi occhi si formarono alcune piccole rughe. Aveva appena compiuto quarant’anni, due i meno della sua amica, ma sembravano entrambe ragazzine.


“Certo”, rispose Elisabeth, “e come sempre scriverò un articolo che finirà sul fondo del cassetto della mia scrivania, insieme a tutti gli altri”.

Tirò fuori dalla borsetta il pass e lo mostrò alla sua amica “Dici che se ne accorgono?”

Partì  in treno un giorno prima dell’evento, voleva essere certa di arrivare con largo anticipo. Dormì in un albergo di periferia ed al mattino, con uno zaino sulle spalle e lo stomaco in subbuglio si presentò all’ingresso. Temeva che qualcosa sarebbe andato storto, sarebbe stato difficile spiegare le sue buone intenzioni in una lingua che a malapena conosceva. Le guardie controllarono il pass e dopo un lungo istante la fecero accedere all’area.
Ma non era ancora finita, Elisabeth voleva raggiungere i box anche se sapeva che non sarebbe stato facile. Le sarebbe piaciuto intervistare qualche uomo del Team Ferrari o vedere anche solo di sfuggita il grande Gilles. Ci teneva a scrivere un articolo accurato da riporre nel cassetto della scrivania nella sua camera da letto.  

“Fraulein, identifizieren Sie sich”… o almeno così le parve di sentire.

Elisabeth si voltò, un agente la fissava infastidito.

“Ho il pass”, gli rispose in un tedesco traballante porgendo il documento. L’agente lo prese in mano e lo guardò con attenzione “questo pass non le da il diritto di accedere ai box”, la apostrofò in italiano.

Elisabeth si scusò e si allontanò. Era inutile discutere e poi non voleva rischiare.

Si incamminò nell’area adiacente al circuito, nascondendosi come un ladro tra gli alberi.

Si sentiva in colpa, quella firma rubata da un documento ufficiale e riprodotta in controluce avrebbe potuto farle perdere il posto di lavoro. “Se il Signor Innocente lo scopre mi denuncia”,  aveva detto alla sua amica, “ma ben gli sta a quello stronzo e che si faccia un esame di coscienza: se tutti lo chiamano Colpevole un motivo ci sarà”.

Girovagò ancora un po’ e  finalmente trovò il posto ideale. Tolse lo zaino dalle spalle, lo adagiò sull’erba profumata, lo aprì  e lo svuotò con cura. Cannocchiale, telecamera e macchina fotografica vennero allineati su un grande masso, per essere utilizzati secondo le necessità.  Prese in mano il taccuino e attese, seduta su un piccolo cuscino che le aveva regalato suo padre quando era bambina e che portava sempre con sé, ogni volta che sapeva che avrebbe avuto bisogno di un sostegno fisico e morale. “Cosa potrò mai scrivere da qui”, si chiese. Tutto ciò che avrebbe visto sarebbe stato lo sfrecciare delle auto e solo grazie alla radiolina avrebbe potuto conoscere il reale andamento della gara. Unica nota positiva era la curva dello Schwetzakeaind “se non altro le macchine erano costrette a rallentare”, si disse. Guardò intorno a sè, i tifosi erano raggruppati nelle zone a loro dedicate, in lontananza un capannello di persone  sventolava delle bandiere rosse. Lei si sentì felice, felice di essere da sola in compagnia della sua passione.

 “Se solo quella testa di tamarindo del Signor Colpevole avesse ragionato , ora avrei il mio bel pass e me ne starei beata ai box a scrivere interviste e invece son qui, con un cuscino sotto al culo ad aspettare di veder sfrecciare qualche macchina sperando di riconoscere almeno la scuderia!”, pensò con rassegnazione Elisabeth.

Ciò che invece successe quel giorno nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Un’ombra improvvisa attraversò la pista, “Der Fuchs Schwetzakeaind” intitolarono i giornali, ma se si sia trattato veramente di una volpe nessuno lo saprà mai. Quel che è certo è che lei era lì, a due passi da quella curva dal nome impronunciabile,  seduta su un vecchio cuscino imbottito di ricordi, con un pass fasullo nello zaino, un taccuino in grembo ed una penna biro nella mano destra.

L’onda d’urto la colpì in pieno, il calore della gomma bruciata si mescolò a un denso fumo nero, cominciò a tossire, si sollevò da terra cercando di capire cosa fosse successo. Sembrava uno scenario di guerra.  Dalle auto accartocciate cominciarono a uscire i primi piloti, alcuni barcollavano, un uomo in tuta azzurra cadde per terra ma fu subito soccorso dagli altri piloti.  I rumori metallici si mescolarono alle voci concitate e al suono delle sirene sempre più vicine.  Erano passati pochi  minuti ma sembrava di vivere in un’altra dimensione, dove tutto si muoveva al rallentatore.  Idranti e barelle si incrociarono come rami di kiwi, divise bianche, tute rosse da pompiere e uomini in abiti civili popolarono la pista.

 “Dodici feriti di cui due gravissimi, ma pare non ci siano morti”, annunciò lo speaker radiofonico ed Elisabeth ancora frastornata e con gli abiti neri di fuliggine tirò un sospiro di sollievo.  Scattò foto attraverso la rete che la separava dalla pista, la telecamera appesa a tracolla captava le voci, i suoni, i rumori. Non poteva far nulla per alleviare il dolore ma poteva almeno descriverlo con l’ausilio del suo prezioso bisturi dalla punta a sfera.

 “Ho saputo che era presente”, le disse il caporedattore il giorno seguente. “Se le va di scrivere qualcosa saremo ben felici di leggere un Suo articolo ed eventualmente pubblicarlo”.

“Mi spiace Signor Innocente”, rispose Elisabeth, “ero troppo lontana e non ho visto nulla”.

Quella sera, nel silenzio della sua stanza, prese in mano gli appunti e scrisse il miglior articolo della sua vita, poi lo ripose nel cassetto, lo chiuse  a chiave e andò a dormire.

L’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa, avrebbe dovuto scrivere un pezzo sull’insediamento del Presidente Ronald Reagan, il suo caporedattore era stato categorico  “dobbiamo sfondare, dobbiamo battere la concorrenza,  non mi deluda”. – “Non la deluderò”, aveva risposto Elisabeth, consapevole che con i sogni non si paga la spesa ed ancor meno l’affitto.

La raccomandata della casa editrice alla quale aveva inviato una prima bozza del suo libro non tardò ad arrivare. Elisabeth era stata chiara fin da subito, “Questa sono io”, aveva scritto allegando una foto a colori scattata con la sua Polaroid. Aprì la busta con trepidazione, al suo interno un invito a presentarsi in redazione, poche righe e una postilla che la fece piangere di gioia “La ringraziamo per averci fatto sentire il profumo dell’erba ed il calore dei motori ”.

DISCLAIMER

I fatti narrati sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autrice. Nessun kiwi è stato maltrattato e nessun uomo o donna umiliato. Non me ne vogliano i familiari dei personaggi citati e qualora si sentissero in qualche modo offesi o presi in causa possono tranquillamente richiedermi la modifica o la rimozione del post.  Mi sento in dovere di ringraziare la mia compagna di blog che attraverso questo nostro corso “homeself” di scrittura creativa mi ha permesso di approfondire molti aspetti della Formula Uno e di rivivere parte della mia infanzia, trascorsa con mio papà davanti alla televisione in attesa del semaforo verde.
Peace and Love
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La Cassa

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernest Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo con una cassa sulle spalle.

Socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco l’immagine. Dietro le colline, ad ovest della prateria, il sole emetteva gli ultimi bagliori prima delle tenebre.

“Ma è Karl !” esclamò tra i denti “che diamine ci fa qui a quest’ora!”

Attese pazientemente che l’ombra si materializzasse, non poteva rischiare che i vicini di casa lo sentissero, non voleva che la verità venisse a galla.

Aprì il portone del cancello e lo fece entrare, richiudendolo un attimo prima che la polizia passasse davanti casa.

“Ma sei matto? A quest’ora ci vedono tutti, eravamo d’accordo dopo il tramonto !

Ma Karl era su di giri:  erano giorni che aspettava quel momento e nulla e nessuno lo avrebbe fermato.

Prese la cassa e la adagiò con fatica davanti alla porta della cantina, non pensava potesse essere così pesante.

“Sicuro che nessuno ti abbia visto?”,  gli chiese, poi fissò la cassa “Cazzo, è uscito del liquido, è viscido,  guarda la tua giacca, è tutta rossa e poi puzzi da far schifo, vai a cambiarti!”.

Un galoppio risuonò lungo la strada. “Ci hanno beccati”, pensò un attimo prima che il suono degli zoccoli dei cavalli della polizia locale si perdesse in fondo alla via.

Karl si tolse immediatamente la giacca, aprì la porta dello scantinato e la gettò giù dalle scale rimanendo in maniche di camicia. Il cravattino risaltava sulla camicia chiara ed una piccola macchia rossastra si intravvedeva all’altezza della cintola.  Rabbrividì.

“Gli altri quando arrivano?”

L’impazienza di Karl iniziava a dargli sui nervi. Ernest era abituato a pianificare tutto, fin nei minimi particolari, anche nell’abbigliamento. Sapeva dei pericoli ai quali sarebbe andato incontro trasportando quella cassa e mai e poi mai avrebbe indossato qualcosa di chiaro. Il rischio di essere arrestati o, peggio ancora, di fare una brutta fine, si faceva sempre più concreto. Bastava leggere qualche giornale locale, ascoltare il sussurrio del popolo per comprendere come la polizia stessa avesse smesso da tempo di credere nel sistema giudiziario arrivando a farsi giustizia da sè. William H.,Eduard K., Paul B. erano solo alcuni degli uomini che quel giorno avevano lasciato questo mondo sotto il colpo delle baionette, rei di aver posto resistenza all’arresto.

Ernest Kazirra fissò Karl dritto negli occhi e con disapprovazione scosse la testa. “Come sempre, appena fa buio, dovresti saperlo”, rispose secco, guardando preoccupato la casa in stile ottocento che confinava con la sua proprietà. Attraverso gli scuri socchiusi si intravvedevano delle figure “dobbiamo fare attenzione, i Thompson si sono insospettiti”.

Non era la prima volta che trasportavano casse, ma non era mai capitato che fuoriuscissero dei liquidi. Dobbiamo stare più attenti, si disse, ripensando a quella volta che la polizia bussò alla porta di casa, insospettita da quegli strani rumori.

Karl si avvicinò alla recinzione sul retro della villa e scostò dei legni mettendo in evidenza un piccolo varco.  “Aspettiamo in cantina”, disse al padrone di casa.

La gente iniziò ad arrivare alla chetichella, passando attraverso quel passaggio segreto.  

Tre tocchi alla porta e poi subito la parola d’ordine: “Hover”. Per fortuna nessun infiltrato, pensò Ernest Kazirra, aprendo ogni volta la porta con circospezione.

Karl si piazzò sulle scale del seminterrato, il suo compito era quello della raccolta gli  oboli. Venti dollari per poter accedere, il resto in base alle necessità.

Ernest sollevò a fatica la cassa e la portò giù dalle scale, posizionandola insieme alle altre.

Prese uno straccio e pulì il lungo rivolo rosso.

La cantina iniziò a riempirsi di un denso fumo grigio, l’odore dei sigari impregnò gli abiti ed oscurò la luce della lampada ad olio.

Karl aprì la prima cassa e nell’aria si sollevò un urlo collettivo. Le mani iniziarono a rovistare nelle tasche e le banconote sgualcite fecero capolino trasformandosi via via in bandiere sventolanti.

“Due, dammene due”, “Io ne voglio tre”. “C’ero prima io, levati di mezzo!”.

Parevano insaziabili. Eppure il discorso del Presidente Roosevelt avrebbe dovuto calmare gli animi.

“Dammi quella bottiglia, bastardo, era mia!”. “Riempimi il bicchiere o ti spacco la faccia”,

Ernest Kazirra sospirò, l’imminente fine del proibizionismo stava minando le sue sicurezze, avrebbe dovuto reinventarsi, trovare soluzioni alternative che gli permettessero di mantenere la sontuosa villa che aveva appena finito di ampliare coi proventi della vendita illegale dell’alcol.

Guardò fuori dalla finestra, gli scuri dei vicini erano chiusi, il sole era sparito dietro alle colline E L’OMBRA DELLA NOTTE SCENDEVA.

− Sono preoccupato, mia moglie passa le sue serate da un bar all’altro.

− Ha il vizio di bere?

− No, ha il vizio di cercarmi.

Gino Bramieri

Colori

Giallo, arancio, rosso … e arancio scuro … e rosso … e di nuovo arancio e poi giallo  e poi rosso e …

E potrei perdermi dietro a tutto ciò …

E non mi interessa sapere se il momento è giallo, arancio o rosso, poco cambia dall’uno all’altro.

Mi interessa solo non dimenticare quante sfumature di colori esistono ancora con cui dipingere le nostre vite.

Ogni nuovo mattino, uscirò per le strade cercando i colori.
(Cesare Pavese)

Sincronizziamoci!

“Sincronizziamo i cuori sullo stesso bpm
Silenzia il cellulare che non ti serve a niente
A meno che non ti serva fare una fotografia
Di noi che ci abbracciamo forte e poi decolliamo via”

canta il mitico Jova in Sabato. Cosa c’è di più bello quando si ama che sincronizzare i cuori sullo stesso battito? Nulla, purché oltre al battito non si sincronizzi altro. Già il battito dice molto di noi all’altro e non è affatto necessario rivelarsi troppo, lasciamo sempre un leggero alone di mistero che possa alimentare il desiderio di conoscersi sempre più, insomma riveliamoci un pò per volta, almeno non finisce subito (pessimismo da esperienze indirette).

Ma non deve aver considerato l’alone di mistero quel giovane che ha pensato di sincronizzare il suo Fitbit (orologio per sportivi che rileva tutti i tipi di performance, ma proprio tutti) con quello della sua ragazza. Sicuramente, dopo aver sincronizzato il bpm sulle frequenze accelerate, deve aver creduto che sincronizzare il Fitbit fosse doveroso, ma mai Fitbit fu più malandrino o subdolo.

Succede che una mattina, dopo che il giovane ha passato la serata fuori con gli amici, la dolce ragazza decide di preparargli la colazione, ma mentre è intenta a fare ciò si consuma la tragedia.

Arriva sul suo Fitbit una notifica “Congratulazioni! Il tuo ragazzo dalle 2 alle 3 ha fatto sesso con un’altra o altro”, no in realtà la notifica non dice questo, ma si congratula con il ragazzo per aver consumato, tra le due e le tre di notte, ben 500 calorie. Se, però, dalle due alle tre di notte non sei ancora tornato a casa e in quel lasso di tempo hai anche consumato 500 calorie ci sta che lei abbia letto “Ha fatto sesso”. Sta di fatto che la ragazza ha concluso la storia scrivendo “I shoved that breakfast where the sun doesn’t shine” (per la traduzione organizzatevi, si parla di parti intime e certe cose non le scrivo, in italiano ovviamente)

Ma io sono buona e ho quindi deciso di fare un ricerca per capire cosa avrebbe potuto fare il giovane dalle due alle tre di notte per consumare ben 500 calorie che non fosse “fare sesso”, perché non sempre la conclusione più ovvia è anche quella giusta.

Ed ecco qua, 500 calorie in sessanta minuti per:

  • Una corsa leggera a circa 8 km/h; gli si è rotta l’auto ed è tornato a casa correndo ma con molta calma … forzando un pò ci può stare si.
  • Nuotare ad un’andatura tranquilla; alle 2 di notte?no poco probabile, a meno che non sia un nuotatore professionista super fissato.
  • Un giro in bicicletta con un’andatura moderata; le città di notte sono belle e perchè no un bel giro in bici? … I approve
  • Salire e scendere le scale senza fermarsi; è sempre un su e giù, ma fatto in maniera diversa … uhm, più probabile l’altro su e giù.
  • Partita a beach volley in spiaggia; con gli amici di notte? Troppo buio per vedere dove finisce la palla … not approved
  • Pattinare sul ghiaccio o con i pattini a rotelle; se fossimo a New York un giro sulla pista di Central Park … sarebbe figooo! Approved o not approved that is the question
  • Un ballo scatenato; dalle 2 alle 3 di notte … possibile.
  • Navigare in canoa; (solo a titolo informativo: non è lo stesso per la navigazione in internet che richiede circa cinque o sette ore per bruciare 500 calorie) … da escludere sempre troppo buio!
  • Rassettare casa e se poi mentre rassetti ascolti la musica e balli con la scopa le calorie consumate aumentano; attività poco notturna e non fattibile fuori casa … bocciata.

Insomma secondo voi cosa potrebbe aver fatto il tipo in quei sessanta minuti? Voi come avreste giustificato quel dispendio di calorie?

Non so voi, ma io non ne ho idea, so, però, con certezza che sincronizzarmi non è per me, non perché abbia qualcosa da nascondere, ma perché non vorrei dovermi chiedere cosa nascondono gli altri … so che poi non mi limiterei ad una colazione nel …

Vi saluto la scopa mi ha appena chiesto un ballo, non posso sottrarmi, 500 calorie non sono da buttar via, anzi si sono proprio da buttar via … buon proseguimento a tutti!

Robin Williams in Mrs. Doubtfire

p.s.: la notizia è facilmente reperibile in rete

Tutta colpa di Shakespeare

dammi tre parole: bacio, luna, tempo suggerite da raccontidialiantis

“Se per baciarti dovessi poi andare all’inferno, lo farei. Così potrò poi vantarmi con i diavoli di aver visto il paradiso senza mai entrarci. (Shakespeare)” “Anche non fosse di Shakespeare, ma di qualc’un altro potrebbe, comunque, avere ragione” pensa Giulia continuando a fissare il telefono “Deprimente che alla mia età, quasi trent’anni, non abbia mai baciato qualcuno da poter dire di aver visto il paradiso”

Ne ha dati di baci Giulia, non è più una ragazzina ed ha avuto le sue storie, ma è convinta di non aver mai dato quello giusto, quello che ispirerebbe la più bella delle poesie o la frase di cui tutti si vorrebbero appropriare per dire “Si è così! Lo posso confermare e non avrei saputo descriverlo meglio” Sicuramente non sarà lei a scriverla e dovrà continuare, tramite i racconti di altri ad immaginare le sensazioni che il bacio giusto, nel momento giusto, ma soprattutto con la persona giusta possa dare, nemmeno nei sogni le è mai capitato.

Chiude il telefono stanca di scorrere le numerose citazioni, frasi e aforismi che popolano i profili social dei suoi amici e si alza dal divano per andare verso la libreria, da uno sguardo veloce ai titoli dei libri, ma non trova quello che le dice “Leggi me! leggi me!”

“Non è giornata, sono troppo distratta, confusa, stanca, annoiata” pensa mentre prende il cappotto dall’appendiabiti nel corridoio, lo indossa ed esce a fare una passeggiata.

“Forse incontro Saverio e facciamo due chiacchiere è un pò che non lo sento” si dice mentre varca il portone del palazzo per trovarsi subito in strada con il pensiero fermo su Saverio, l’altro suo punto debole e si avvia in direzione dei giardini pubblici poco distanti.

La luce sta cambiando, il sole saluta quel giorno tingendo il cielo di molteplici sfumature arancio, rosa, giallo, blu da renderlo incantato. Con lo sguardo in su, senza riuscire a distogliere l’attenzione da quei colori, si addentra nei giardini. Il crepuscolo della sera e quello del mattino, quando il sole gioca a fare il pittore, sono i momenti della giornata che preferisce.

“Bello spettacolo vero?” esclama qualcuno avvicinandosi “Saverio! Sei qui!” esclama Giulia, riconoscendo la voce e continua “Speravo di incontrarti” “Lo sapevo, come so che è il tuo momento preferito per camminare, per cui eccomi!” le risponde abbracciandola “Ok sul mio momento preferito, ma non potevi sapere che speravo d’incontrarti” replica Giulia ridendo e rispondendo all’abbraccio “In effetti no o forse sì o forse è quello che speravo io” continua lui senza, però, liberarla dall’abbraccio “Ho voglia di chiacchierare un po’ con te” gli risponde lei restando tra le sue braccia.

Ogni volta che lui l’abbraccia Giulia sta bene in quell’abbraccio, si sente viva, al sicuro, quasi a casa e vorrebbe che non finisse mai, ma non capita spesso che lui lo faccia.

“Vuoi parlare di qualcosa in particolare o parler pour parler?” chiede Saverio sfoggiando una della poche frasi di francese che conosce e mettendo un’eccessiva enfasi sulla erra “Mais oui mon ami qualche chiacchiera tra amici” cinguetta Giulia “Bien mia cara, scegli un argomento, sono a tua disposizione” “Scegli un argomento? Come stai? Che hai fatto? Sei felice? Non possono andare per cominciare?” e ride “Hai ragione!” Saverio pensa un attimo “Se sei felice, è di questo che vuoi parlare” “Si” gli risponde Giulia avvicinandosi un pò più a lui “Allora dimmi luce dei miei occhi, sei felice?”

“Luce dei miei occhi … e questa da dove esce?” dice Giulia ridendo divertita “Perdonami mi è uscita così, lo so è ridicola” “Ma no dai è divertente” “Ok! ok! Non vuoi farmi sentire un idiota e per questo ti adoro” dopo una pausa, serio le chiede “Sei felice Giulia?” “Non lo so, forse sì, forse no. Ho un lavoro, una casa tutta mia, posso andare in vacanza dove voglio, eppure sento che mi manca qualcosa, mi sento incompleta o forse non abbastanza viva o forse, bo non saprei proprio. Comunque se oggi sto così è tutta colpa di Shakespeare” “Shakespeare?!” chiede Saverio sorpreso “È venuto a trovarti? Ti ha offesa o importunata? Dimmi subito che vado a cercarlo e gliene dico quattro” lei scoppia a ridere “No non mi ha importunata, mi ha solo fatto riflettere sulla mia vita amorosa” Saverio la guarda cercando di leggere qualcosa in più nei suoi occhi e le chiede “Forse la tua vita amorosa ha qualcosa che non va come la mia?” “Cosa ha la tua che non va?” domanda lei incamminandosi di nuovo “Pensavo lo sapessi?” le risponde Saverio camminandole a fianco “Cosa dovrei sapere?” insiste a chiedere Giulia “Del mio amore non corrisposto … almeno credo” “Oh come mi dispiace Saverio. Chi è l’idiota che non corrisponde il tuo amore? Non capisce nulla! Sei fantastico, sei l’uomo perfetto da amare, credimi” “Dici davvero?” – “Certo! Guardati, sei un bell’uomo, simpatico, gentile, sai ascoltare, devi solo avere fiducia in te stesso” e gli da un colpetto di incoraggiomento su un braccio “Forse hai ragione, ma lasciamo stare me e dimmi cos’ha che non va la tua vita amorosa” – “Tutto!” e tutto d’un fiato continua “Intanto sono sola e non dirmi potresti prendere un gatto, non è quello che voglio. Vorrei innamorarmi, anche se forse lo sono ma …” ha un attimo di esitazione poi prosegue “Insomma vorrei provare sensazioni forti e vorrei essere disposta ad andare all’inferno pur di provarle. Mi capisci?” “Non proprio, ma immagino che il tuo andare all’inferno abbia a che fare con Shakespeare” “Esatto! Oggi mi sono scazzata dopo una sua poesia, che forse nemmeno ha scritto lui, ma non importa, mi sono scazzata lo stesso ed ho iniziato a pensare che non ho mai baciato nessuno al punto di sentirmi in paradiso” “Davvero?” le chiede Saverio “Si davvero!” e mentre l’ascolta parlare Saverio la osserva: quel viso, quei lineamenti, quella voce, quella donna gli piacciono da morire.

Si conoscono da più di un anno ormai, ma non è ancora riuscito a parlargliene.

Si erano incontrati al parco un giorno che lui era con Toby, il suo cane. Un piccolo incidente tra Giulia e Toby li aveva fatti conoscere, era nata così la loro amicizia e nei mesi si era consolidata . Si incontravano spesso passeggiando e ogni volta continuavano la camminata insieme chiacchierando, ridendo e scherzando, era diventato quasi un rito serale, ma senza nessun impegno preciso, chi c’era, c’era. Avevano anche bevuto qualche aperitivo insieme, consumato qualche cena al pub sotto casa di lei e si sentivano con dei messaggi via cellulare, ma tutto finiva lì, lui non trovava un modo per andare oltre. Giulia era riservata. Non si esponeva molto su sé stessa tranne in rare occasioni, come in quel momento, in cui si lasciava andare e, allora, si raccontava a ruota libera e lui si sentiva travolto da lei, impazziva dal desiderio per lei e si convinceva sempre più di amarla.

“Avere fiducia in te stesso” Saverio pensa alle parole che Giulia gli ha detto poco prima, si ferma un attimo e le dice “Dammi le mani” lei si gira verso di lui e gliele allunga subito, lui le prende e le stringe con forza tra le sue “Chiudi gli occhi” – “Perchè cosa vuoi farmi fare?” dice lei fingendosi preoccupata “Fidati” le risponde. E lei, che di Saverio si fida tantissimo, li chiude.

Aveva riposto la sua fiducia in lui fin da subito, dalla prima volta in cui lo aveva conosciuto. Era rimasta colpita oltre che dall’amore che lui aveva per il suo cane, che spesso li accompagnava nelle loro passeggiate e di cui anche lei, fin da subito, si era innamorata, dai modi educati e rispettosi che aveva con lei e dalla sua timidezza. Se non fosse stato per Toby che si era scontrato con Giulia facendola cadere, non si sarebbero mai conosciuti. Probabilmente Saverio, anche incrociandola spesso, oltre all’educato buongiorno con cui la salutava ogni volta, non le avrebbe mai rivolto altre parole, ma in quell’occasione non aveva potuto farne a meno, l’aveva soccorsa ed era stato gentilissimo e simpatico nel farlo. A volte non le sarebbe dispiaciuto se lui avesse osato di più con lei, ma non lo faceva e lei, pur essendo parecchio presa dalla loro amicizia, rispettava la sua scelta cercando di essere discreta e non invadente, non voleva perderlo per nessun motivo al mondo.

Giulia ad occhi chiusi e con le mani strette in quelle di Saverio aspetta, fa un passo quasi a voler camminare ma lui la blocca. Si sente strana, c’è un’intensità diversa tra loro due quella sera “Ferma non ti muovere, non andiamo da nessuna parte e resta ad occhi chiusi”- “Ok sarò immobile”- “Bene” dice Saverio cercando di nascondere una certa emozione. Poi si avvicina con il volto a quello di lei, sente il suo respiro sfiorargli le guance e pensando di nuovo “Abbi fiducia in te stesso” le lascia le mani per tirarla verso sé e appoggiare le labbra a quelle di Giulia che è sorpresa, ma non si tira indietro, anzi si avvicina ancora di più lasciando che le sue labbra si rilassino al contatto con quelle di lui. Le dischiude leggermente per invitarlo ad osare di più e lui ne approfitta subito.

Giulia è travolta da un’infinità di sensazioni. Più lui insiste con il bacio, più lei si sente coinvolta, ma non è solo un coinvolgimento fisico, c’è molto di più. Mentre il suo cuore esplode, la sua mente si libera e tutte le paranoie improvvisamente non ci sono più, sono svanite lasciando spazio solo a pensieri su loro due, a momenti di loro due, a cose dette tra loro due che giacevano sopite in attesa di qualcosa che le portasse alla luce e quel qualcosa è arrivato “Sarò in paradiso?” si domanda Giulia che socchiude gli occhi un istante per accertarsi di non sognare. Il crepuscolo ha lasciato spazio al buio, ma il chiarore della luna alta nel cielo, le consente di vedere i lineamenti rilassati di Saverio. Per un’istante apre gli occhi anche lui, ma senza lasciare la sua bocca, i due sguardi colmi di passione si incontrano, poi entrambi tornano a baciarsi. Nessuno dei due vuole perdere altro tempo, hanno aspettato ed indugiato fin troppo a lungo per trovarsi. E, mentre continua a sciogliersi tra le braccia di lui, Giulia pensa “William credo di essere in paradiso … ti racconterò” e si stringe più che può a Saverio che, ormai sicuro di se, non sente nemmeno il bisogno di respirare, ma solo quello di baciarla.

The perfect man (part 2)


Here “the perfect man part one”

PING…”Buongiorno tesorino bello, dormito bene ?”

Eh no, mo’ lo blocco, si disse Laura, ma quanti cazzo d’anni c’avrà questo? Dieci? Dodici? Saranno almeno quarant’anni che nessuno si rivolge a me in questo modo.
“Non tanto per le parole, che in un saldo rapporto di coppia potrebbero anche starci”, pensò, “quanto per il timbro di voce … e poi lo sa bene che non voglio ricevere file audio”.


Si sedette a gambe incrociate sul tappeto rosso della sua camera da letto, inspirò a lungo dal naso e espirando con forza dalla bocca svuotò i polmoni. Le lezioni di yoga a qualcosa servivano!
Prese in mano il cellulare, contò fino a dieci e con un messaggino lo invitò per l’ennesima volta a non inviare più file audio.

PING… “Ti amo”, le scrisse enfatizzando il tutto con cuoricini BACINI e fiorellini. “Ah beh, ci sono andata vicina con l’età” pensò Laura ridendo .


PING ….”Ecchecavolo un altro messaggio audio. Giuro che se mi chiama ancora “ tesorino bello” lo denuncio per vilipendio alla mia integrità di donna, ci manca solo un DU DU DA DA DA e poi mi trasformo in Jack lo squartatore”. Fissò lo schermo mordendosi una guancia: “ussignur , quaranta secondi di audio, manco i miei figli me li han mai inviai “.


Ohhhm Ohhhm, le gambe erano sempre incrociate, fissò i disegni che risaltavano sul tappeto e con un dito ne seguì il contorno, una mezzaLUNA ed un sole si intrecciavano con varie figure geometriche creando una simpatica simmetria di colori. Prese TEMPO e quando si sentì pronta accostò il cellulare all’orecchio.


“I love you my dear …” I love you my dear… I love you my dear … I want to see you, I want your photo, I want see your legs, your hands , your hairs, I love you, you are the best, I want meet you”.


“Houston? Texas? Questo al massimo è di Gallarate e c’ha pure bisogno di un TSO” , riflettè mentre inoltrava l’audio a Carla, la sua amica del cuore .
“Seeeeeeee, se questo è di Houston io sono Angelina Jolie”, le rispose immediatamente Carla “comunque, fossi in te, il numero di whatsapp glielo darei, giusto per capire dove vuole arrivare a parare, anche se mi pare fin troppo evidente, comunque puoi sempre bloccarlo lasciando attivi solo i messaggini, così eviti che ti stalkerizzi”
Laura scoppiò a ridere, lei e Carla erano amiche da tantissimi anni, la loro amicizia era nata per puro caso e seppur vivendo in contesti completamente differenti condividevano gli stessi prìncipi ehmmm no, PRINCìPI, ovviamente con l’accento sulla seconda “i”.


“Davvero? Davvero davvero davvero? E come mai hai cambiato idea!?” le chiese enfatizzando il tutto con cuori fiori e quadri, mancava solo il picche, quello che gli avrebbe dato lei, se non la smetteva di comportarsi in quel modo così infantile.

Fu così che la loro “amicizia”, nata su Messenger , venne affidata ai piccioni viaggiatori di whatsapp con buonapace di John e probabile rassegnazione della di lui consorte.

Il cellulare squillò alle ventidue, Laura aveva appena indossato il pigiama blu con la scritta “ Follow your dreams”. Nessuno le telefonava mai a quell’ora, si chiese chi potesse essere, sicuramente non John , erano trascorsi mesi da quando Carla la convinse a cedere alle implorazioni di quello che inizialmente aveva soprannominato Narciso Man ma col passare del tempo aveva cominciato a ricredersi, in fin dei conti non era poi così male. Certo, c’erano ancora tanti punti oscuri, ma per il tipo di amicizia che si era creata, a lei non interessava più di quel tanto. Le andava bene così, chiacchieravano in chat, lei aveva messo dei paletti e seppur a fatica era riuscita a mantenerli. Alle sue richieste esplicite lei tirava fuori ogni volta il due di picche e la cosa moriva lì.

In quei mesi John le aveva inviato diverse foto e video personali attenendosi alle regole, solo una volta aveva cercato di mostrarle il suo coso ma Laura lo aveva stoppato e le loro conversazioni si erano attestate su un piano meno intimo ma sicuramente più interessante da un punto di vista della conoscenza reciproca. Fu grazie a quelle foto ed a quei video che Laura scopri la passione di John per il volo.

Si, perché John, oltre ad essere un ingegnere petrolifero aveva conseguito anche un brevetto di volo e nel tempo libero si dilettava noleggiando piccoli bimotori coi quali lasciava il suo isolotto sperso nel mediterraneo e raggiungeva il continente . In un emozionante video John le mostrò un atterraggio di emergenza compiuto a Fiumicino in una giornata proibitiva, il lungo scambio di informazioni con la torre di controllo e la sua voce agitata avevano fatto breccia nel cuore di Laura: in quell’occasione , John, aveva rischiato veramente di non farcela.


Al terzo squillo Laura sussulto’, si era persa nei suoi pensieri, prese in mano il cellulare, e fissò lo schermo: numero privato”. Rispose. All’altro capo una voce maschile, forte e schietta, tipica di chi è abituato a dare ordini, la fece rabbrividire. “Domattina alle otto e non ne faccia parola con nessuno”, le disse.

Fu così che Laura si ritrovò immischiata in quella che in seguito definì “una giusta rivalsa”.

TO BE CONTINUED.

Niente è più visibile di ciò che è nascosto”.
CONFUCIO

Finchè c’è vita c’è speranza?

L’amore non ha età? O gallina vecchia fa buon brodo? Quale detto popolare si addice bene alla storia di un anziano novantatreenne che chiede il divorzio dalla moglie 7 anni più giovane di lui? In questo caso direi vanno bene tutti e tre.

Il nonnetto si è innamorato e l’amore lo sappiamo non ha età, per la verità qualcuno pensa che non esista e qualcun altro che duri solo tre anni, ma non è il suo caso lui si è innamorato! Però non di sua moglie, sarebbe stato troppo scontato e, invece, a novantatré anni una botta di vita ci sta proprio bene. Si è innamorato di un’altra ed anche tanto e lei lo ricambia. A nulla son valsi i no, i “pensa a cosa stai facendo” o le proteste della consorte e di tutta la discendenza figli, nipoti e pronipoti, per farlo desistere dall’amare l’altra e chiedere il divorzio perché vuole rifarsi una vita.

La povera consorte, presa per sfinimento, forse altre prese non le vede da tanto, è stata costretta a cedere all’insistenza e concedere il divorzio.

Diciamocelo ma chi è lei per impedire al ringalluzzito marito di rifarsi una vita andando a convivere con l’altra? Una moglie come tante che in questi casi poco possono fare, perché se a lui parte il boccino poi, a tutti i costi, vuole andare in buca.

Leggendo “altra” avete pensato subito la badante? No! Come sarebbe no? Dai ammettetelo ci avete pensato, non potete essere immuni alle storie su badanti furbe che si accaparrano il vecchietto e i suoi gioielli ehm averi volevo scrivere averi. Non posso averle sentite solo io. Comunque no! L’altra non è la badante, ma una coetanea della consorte reietta (ed ecco che “gallina vecchia ecc. ecc” entra a piedi uniti nella storia), conosciuta ante lockdown in un circolo culturale. Ehh cultura galeotta, quando si dice “Mi ha preso la mente, non ho saputo resistergli”. Infatti la storia la mente gliel’ha presa, ad entrambi, molto più di quanto potesse fare quel tizio di nome Alzheimer e, tra un casquè, una giravolta e una partita a carte, si è accesa la scintilla. La storia ha preso fuoco, le fiamme son divampate alte e si son lasciate intorno solo congiunti bruciacchiati, un’ex moglie affumicata, ma, per fortuna, nessuno arso vivo, anche se immagino che la povera ex moglie un arrostita ben fatta al marito gliela avrebbe data volentieri. Ha voluto esser superiore, ma non senza mettergli i bastoni tra le ruote per un pò, firmando, infine, la separazione. Ora lui ha sei mesi di tempo per ottenere il divorzio.

Corna e sconfitti a parte, è una storia di speranza. Non sono molti coloro che a 93 anni (sempre ad arrivarci) pensano di poter ricominciare una nuova avventura. Sicuramente il buon brodo di cui si è saziato il nonnetto era notevole e qualche effetto positivo glielo ha provocato. Potrebbe, per pura solidarietà, l’attempata gallinella passarne la ricetta anche a tutti quei nonnetti che, al centro culturale, più di una partita a carte non riescono a scagliare?

Lunga vita a tutti!

“Non si è mai troppo vecchi finché si desidera sedurre e, soprattutto, finché si desidera essere sedotti” Charles Pierre Baudelaire