L’Evento

Elisabeth Lemsh uscì dall’ufficio stringendo la sua preziosa valigetta scamosciata piena di articoli scritti a mano, non aveva intenzione di piangere, lo aveva fatto troppe volte. La delusione nel corso degli anni aveva lasciato posto alla rabbia. “Si rassegni”, le disse il suo caporedattore, “provi a scrivere di moda e folclore o continui con la politica, ma lasci perdere tutto il resto, mi dia retta, è meglio così”.
“Abbia almeno il coraggio di darmi delle motivazioni” rispose Elisabeth esasperata. Non vi fu una vera risposta, se non un balbettio di considerazioni che vertevano intorno ad un unico argomento “sei una donna, comportati da donna!”.


Certo, pensò quella sera Elisabeth guardandosi nello specchio della sua camera da letto, sono una donna, ma il problema non è solo questo. Si accarezzò i lunghi capelli ricci, prese un foulard color sabbia e li avvolse con cura, come le aveva insegnato sua mamma sin da quand’era bambina. Si asciugò una lacrima che scorreva sulla guancia color cioccolato e avvertì sotto ai polpastrelli l’elasticità della pelle priva di rughe “Sono una donna e per di più di colore” disse ad alta voce, fu quasi un urlo,  come a voler allontanare da sé tutto ciò che non le permetteva di sentirsi realizzata.

Eppure l’ultimo anno di liceo suo padre l’aveva avvisata “forse è meglio se scegli medicina, avresti maggiori opportunità”. Ma Elisabeth fu inamovibile, non sarebbe mai riuscita a tenere in mano un bisturi con la stessa disinvoltura con la quale teneva in mano una penna. “Pa’ Swahili”, rispose fiera, “la medicina non fa per me, io voglio girare il mondo, conoscere persone, imparare le lingue, voglio scrivere, scrivere e ancora scrivere, non sarò mai in grado di guarire un dolore ma voglio imparare almeno a descriverlo”. Suo padre annuì, comprendeva le sue necessità e non aveva alcuna intenzione di tarparle le ali.

Swahili Lemsh era arrivato giovanissimo Italia in qualità di diplomatico per il Consolato Ghanese portando con sé sua moglie Muskeba incinta di pochi mesi. Erano passati tanti anni da quel giorno, sua figlia aveva frequentato le scuole pubbliche, presto si sarebbe iscritta all’università e Swahili non si era mai pentito delle proprie scelte. Non era stato facile lasciarsi alle spalle i propri cari in un paese perennemente in guerra per arrivare in un altro Paese altrettanto problematico, l’Europa era sul punto di esplodere, Polonia e Germania erano arrivati ai ferri corti e nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo, ma Swahili era un uomo determinato e grazie alle proprie capacità riuscì ad affermarsi in un mondo che non gli apparteneva e che dava più importanza al colore della sua pelle che non alle sue capacità.

Elisabeth  si sfilò gli stivali e li abbandonò in un angolo della stanza,  appoggiò  la valigetta scamosciata su una mensola,  non aveva voglia di aprirla, sentiva solo la necessità di riposare. Si sdraiò sul letto con il foulard color sabbia ancora tra i capelli e si lasciò andare  ancora  una volta ai ricordi di quand’era poco più che bambina.

“Domenica mattina andremo a Monza”, disse suo padre mentre facevano colazione. Elisabeth lanciò un urlo di gioia, lasciò cadere per terra il quaderno di algebra sul quale stava annotando gli ultimi esercizi prima di andare a scuola e gli saltò in grembo, abbracciandolo. I giornali avevano annunciato l’imminente inaugurazione del nuovo autodromo, ristrutturato dopo il periodo bellico. Swahili, in qualità di diplomatico, era riuscito a farsi rilasciare un pass; non era stato facile anche perché la presenza di Gronchi rendeva molto selettiva la scelta degli invitati. Era a conoscenza ed avallava la passione di sua figlia per il mondo delle auto da competizione e pertanto nel corso degli anni le aveva regalato diverse riviste specializzate che Elisabeth leggeva con bramosia, annotandone i punti salienti su un quadernetto che custodiva gelosamente sotto al materasso della sua cameretta e che abbelliva con riproduzioni dei principali autodromi sia italiani che esteri, realizzati a mano libera. “Pa’ Swahili, ti prego, fammi incontrare Manuel Fangio”, gli chiese quel giorno con sguardo implorante.

Un raggio di sole la svegliò, indossava ancora gli abiti del giorno prima ma il foulard che contornava il suo bel viso era scivolato sul pavimento di marmo. Guardò l’orologio e si stupì, erano anni che non dormiva così profondamente. Per un attimo tornò con la mente all’autodromo, poi si fece forza, si alzò e mise sul fornello una moka di caffè. Si sedette in un angolo della sala fissando l’unico quadro che abbelliva la stanza. Una cornice di legno leggermente intarsiata ed una semplice lastra di vetro incorniciavano il suo bene più prezioso: un foglio di carta leggermente stropicciato. Erano passati tantissimi anni da quando un uomo in polo e giubbotto da lavoro le regalò un sogno “A Elisabeth, segui sempre i tuoi desideri e non lasciarti intimorire dagli eventi. Manuel Fangio”. Non le era sembrato vero, ma quel giorno El Chueco era lì, davanti a lei, le parlava, parlava a lei, proprio a lei e le porgeva un foglio di carta con una dedica speciale, scritta appositamente per lei, per una bimba di colore dai lunghi capelli ricci. “Grazie Pà Swahili, grazie per aver esaudito il mio desiderio”, disse mentre con mano tremante prendeva dalle mani del suo idolo quel foglio di carta stropicciato.

La caffettiera iniziò a sobbollire e nella stanza si avvertì un gradevole aroma di caffè. Elisabeth spense il fornello e riempì la tazzina. “Se fosse stato di un altro colore non sarebbe stato caffè”, pensò fissando la bevanda nera e fumante “Sarebbe stata comunque una bevanda piacevole, ma non sarebbe stato caffè”. Con la tazzina nella mano sinistra si avvicinò alla finestra e fissando il cielo accostò  l’altra  mano alle labbra e distaccandola lentamente lanciò un bacio “Buongiorno Pa’ Swahili,  ovunque tu sia”. Accese la radio ed ascoltò le notizie che arrivavano da Oltreoceano, poi prese carta e penna e iniziò ad abbozzare un articolo. Se Ronald Reagan fosse stato eletto voleva aver pronto un pezzo da consegnare in tempo reale al suo caporedattore. “Lasci stare tutto il resto”, le aveva detto quello stronzo il giorno prima. No, Elisabeth non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle proprie aspirazioni e ogni volta che veniva presa dallo sconforto ripensava a quel foglietto stropicciato conservato con cura come fosse una reliquia.

 “E’ inutile, Virna, la redazione sportiva neppure li legge i miei articoli. Seppur con un giro di parole, quello stronzo mi ha detto che a nessun lettore di riviste specializzate interessa un articolo scritto da una donna, come se noi donne non sapessimo nulla di automobili”, si sfogò con l’amica, incontrata nella cartoleria sotto casa,  “E poi ho anche l’aggravante della pelle nera, Virna, te ne sei accorta?”, le chiese in tono scherzoso. Scoppiarono a ridere entrambe.

Professionalmente, Virna era stata più fortunata, forse perché la sua principale passione non ruggiva come un motore. Virna curava infatti diverse rubriche che trattavano di arredamento e giardinaggio. I suoi articoli venivano apprezzati sia dai redattori che dai lettori e non mancavano mai sulla sua scrivania lettere di uomini che le dichiaravano il loro amore, soprattutto dopo che il caporedattore aveva deciso di inserire in rubrica la foto del suo bel viso affusolato, dalla carnagione incarnata e dalla folta chioma rossastra. “Perché non chiedi al caporedattore di inserire una tua foto sul giornale?”, suggerì Virna  alla sua amica. Elisabeth corrugò la fronte “Non dire cretinate, non lo farebbe mai e poi sai bene come la pensa la gente, soprattutto quelli che non si perdono un solo articolo sulla politica. Meglio non si sappia che la firma E. L.  è quella di una donna … e  per di più di colore!”.  Virna sapeva che la sua amica aveva ragione e seppur a malincuore preferì cambiare argomento. “Domenica parteciperai?”, le chiese con il sorriso sulle labbra. Intorno ai suoi occhi si formarono alcune piccole rughe. Aveva appena compiuto quarant’anni, due i meno della sua amica, ma sembravano entrambe ragazzine.


“Certo”, rispose Elisabeth, “e come sempre scriverò un articolo che finirà sul fondo del cassetto della mia scrivania, insieme a tutti gli altri”.

Tirò fuori dalla borsetta il pass e lo mostrò alla sua amica “Dici che se ne accorgono?”

Partì  in treno un giorno prima dell’evento, voleva essere certa di arrivare con largo anticipo. Dormì in un albergo di periferia ed al mattino, con uno zaino sulle spalle e lo stomaco in subbuglio si presentò all’ingresso. Temeva che qualcosa sarebbe andato storto, sarebbe stato difficile spiegare le sue buone intenzioni in una lingua che a malapena conosceva. Le guardie controllarono il pass e dopo un lungo istante la fecero accedere all’area.
Ma non era ancora finita, Elisabeth voleva raggiungere i box anche se sapeva che non sarebbe stato facile. Le sarebbe piaciuto intervistare qualche uomo del Team Ferrari o vedere anche solo di sfuggita il grande Gilles. Ci teneva a scrivere un articolo accurato da riporre nel cassetto della scrivania nella sua camera da letto.  

“Fraulein, identifizieren Sie sich”… o almeno così le parve di sentire.

Elisabeth si voltò, un agente la fissava infastidito.

“Ho il pass”, gli rispose in un tedesco traballante porgendo il documento. L’agente lo prese in mano e lo guardò con attenzione “questo pass non le da il diritto di accedere ai box”, la apostrofò in italiano.

Elisabeth si scusò e si allontanò. Era inutile discutere e poi non voleva rischiare.

Si incamminò nell’area adiacente al circuito, nascondendosi come un ladro tra gli alberi.

Si sentiva in colpa, quella firma rubata da un documento ufficiale e riprodotta in controluce avrebbe potuto farle perdere il posto di lavoro. “Se il Signor Innocente lo scopre mi denuncia”,  aveva detto alla sua amica, “ma ben gli sta a quello stronzo e che si faccia un esame di coscienza: se tutti lo chiamano Colpevole un motivo ci sarà”.

Girovagò ancora un po’ e  finalmente trovò il posto ideale. Tolse lo zaino dalle spalle, lo adagiò sull’erba profumata, lo aprì  e lo svuotò con cura. Cannocchiale, telecamera e macchina fotografica vennero allineati su un grande masso, per essere utilizzati secondo le necessità.  Prese in mano il taccuino e attese, seduta su un piccolo cuscino che le aveva regalato suo padre quando era bambina e che portava sempre con sé, ogni volta che sapeva che avrebbe avuto bisogno di un sostegno fisico e morale. “Cosa potrò mai scrivere da qui”, si chiese. Tutto ciò che avrebbe visto sarebbe stato lo sfrecciare delle auto e solo grazie alla radiolina avrebbe potuto conoscere il reale andamento della gara. Unica nota positiva era la curva dello Schwetzakeaind “se non altro le macchine erano costrette a rallentare”, si disse. Guardò intorno a sè, i tifosi erano raggruppati nelle zone a loro dedicate, in lontananza un capannello di persone  sventolava delle bandiere rosse. Lei si sentì felice, felice di essere da sola in compagnia della sua passione.

 “Se solo quella testa di tamarindo del Signor Colpevole avesse ragionato , ora avrei il mio bel pass e me ne starei beata ai box a scrivere interviste e invece son qui, con un cuscino sotto al culo ad aspettare di veder sfrecciare qualche macchina sperando di riconoscere almeno la scuderia!”, pensò con rassegnazione Elisabeth.

Ciò che invece successe quel giorno nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Un’ombra improvvisa attraversò la pista, “Der Fuchs Schwetzakeaind” intitolarono i giornali, ma se si sia trattato veramente di una volpe nessuno lo saprà mai. Quel che è certo è che lei era lì, a due passi da quella curva dal nome impronunciabile,  seduta su un vecchio cuscino imbottito di ricordi, con un pass fasullo nello zaino, un taccuino in grembo ed una penna biro nella mano destra.

L’onda d’urto la colpì in pieno, il calore della gomma bruciata si mescolò a un denso fumo nero, cominciò a tossire, si sollevò da terra cercando di capire cosa fosse successo. Sembrava uno scenario di guerra.  Dalle auto accartocciate cominciarono a uscire i primi piloti, alcuni barcollavano, un uomo in tuta azzurra cadde per terra ma fu subito soccorso dagli altri piloti.  I rumori metallici si mescolarono alle voci concitate e al suono delle sirene sempre più vicine.  Erano passati pochi  minuti ma sembrava di vivere in un’altra dimensione, dove tutto si muoveva al rallentatore.  Idranti e barelle si incrociarono come rami di kiwi, divise bianche, tute rosse da pompiere e uomini in abiti civili popolarono la pista.

 “Dodici feriti di cui due gravissimi, ma pare non ci siano morti”, annunciò lo speaker radiofonico ed Elisabeth ancora frastornata e con gli abiti neri di fuliggine tirò un sospiro di sollievo.  Scattò foto attraverso la rete che la separava dalla pista, la telecamera appesa a tracolla captava le voci, i suoni, i rumori. Non poteva far nulla per alleviare il dolore ma poteva almeno descriverlo con l’ausilio del suo prezioso bisturi dalla punta a sfera.

 “Ho saputo che era presente”, le disse il caporedattore il giorno seguente. “Se le va di scrivere qualcosa saremo ben felici di leggere un Suo articolo ed eventualmente pubblicarlo”.

“Mi spiace Signor Innocente”, rispose Elisabeth, “ero troppo lontana e non ho visto nulla”.

Quella sera, nel silenzio della sua stanza, prese in mano gli appunti e scrisse il miglior articolo della sua vita, poi lo ripose nel cassetto, lo chiuse  a chiave e andò a dormire.

L’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa, avrebbe dovuto scrivere un pezzo sull’insediamento del Presidente Ronald Reagan, il suo caporedattore era stato categorico  “dobbiamo sfondare, dobbiamo battere la concorrenza,  non mi deluda”. – “Non la deluderò”, aveva risposto Elisabeth, consapevole che con i sogni non si paga la spesa ed ancor meno l’affitto.

La raccomandata della casa editrice alla quale aveva inviato una prima bozza del suo libro non tardò ad arrivare. Elisabeth era stata chiara fin da subito, “Questa sono io”, aveva scritto allegando una foto a colori scattata con la sua Polaroid. Aprì la busta con trepidazione, al suo interno un invito a presentarsi in redazione, poche righe e una postilla che la fece piangere di gioia “La ringraziamo per averci fatto sentire il profumo dell’erba ed il calore dei motori ”.

DISCLAIMER

I fatti narrati sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autrice. Nessun kiwi è stato maltrattato e nessun uomo o donna umiliato. Non me ne vogliano i familiari dei personaggi citati e qualora si sentissero in qualche modo offesi o presi in causa possono tranquillamente richiedermi la modifica o la rimozione del post.  Mi sento in dovere di ringraziare la mia compagna di blog che attraverso questo nostro corso “homeself” di scrittura creativa mi ha permesso di approfondire molti aspetti della Formula Uno e di rivivere parte della mia infanzia, trascorsa con mio papà davanti alla televisione in attesa del semaforo verde.
Peace and Love
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La Cassa

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernest Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo con una cassa sulle spalle.

Socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco l’immagine. Dietro le colline, ad ovest della prateria, il sole emetteva gli ultimi bagliori prima delle tenebre.

“Ma è Karl !” esclamò tra i denti “che diamine ci fa qui a quest’ora!”

Attese pazientemente che l’ombra si materializzasse, non poteva rischiare che i vicini di casa lo sentissero, non voleva che la verità venisse a galla.

Aprì il portone del cancello e lo fece entrare, richiudendolo un attimo prima che la polizia passasse davanti casa.

“Ma sei matto? A quest’ora ci vedono tutti, eravamo d’accordo dopo il tramonto !

Ma Karl era su di giri:  erano giorni che aspettava quel momento e nulla e nessuno lo avrebbe fermato.

Prese la cassa e la adagiò con fatica davanti alla porta della cantina, non pensava potesse essere così pesante.

“Sicuro che nessuno ti abbia visto?”,  gli chiese, poi fissò la cassa “Cazzo, è uscito del liquido, è viscido,  guarda la tua giacca, è tutta rossa e poi puzzi da far schifo, vai a cambiarti!”.

Un galoppio risuonò lungo la strada. “Ci hanno beccati”, pensò un attimo prima che il suono degli zoccoli dei cavalli della polizia locale si perdesse in fondo alla via.

Karl si tolse immediatamente la giacca, aprì la porta dello scantinato e la gettò giù dalle scale rimanendo in maniche di camicia. Il cravattino risaltava sulla camicia chiara ed una piccola macchia rossastra si intravvedeva all’altezza della cintola.  Rabbrividì.

“Gli altri quando arrivano?”

L’impazienza di Karl iniziava a dargli sui nervi. Ernest era abituato a pianificare tutto, fin nei minimi particolari, anche nell’abbigliamento. Sapeva dei pericoli ai quali sarebbe andato incontro trasportando quella cassa e mai e poi mai avrebbe indossato qualcosa di chiaro. Il rischio di essere arrestati o, peggio ancora, di fare una brutta fine, si faceva sempre più concreto. Bastava leggere qualche giornale locale, ascoltare il sussurrio del popolo per comprendere come la polizia stessa avesse smesso da tempo di credere nel sistema giudiziario arrivando a farsi giustizia da sè. William H.,Eduard K., Paul B. erano solo alcuni degli uomini che quel giorno avevano lasciato questo mondo sotto il colpo delle baionette, rei di aver posto resistenza all’arresto.

Ernest Kazirra fissò Karl dritto negli occhi e con disapprovazione scosse la testa. “Come sempre, appena fa buio, dovresti saperlo”, rispose secco, guardando preoccupato la casa in stile ottocento che confinava con la sua proprietà. Attraverso gli scuri socchiusi si intravvedevano delle figure “dobbiamo fare attenzione, i Thompson si sono insospettiti”.

Non era la prima volta che trasportavano casse, ma non era mai capitato che fuoriuscissero dei liquidi. Dobbiamo stare più attenti, si disse, ripensando a quella volta che la polizia bussò alla porta di casa, insospettita da quegli strani rumori.

Karl si avvicinò alla recinzione sul retro della villa e scostò dei legni mettendo in evidenza un piccolo varco.  “Aspettiamo in cantina”, disse al padrone di casa.

La gente iniziò ad arrivare alla chetichella, passando attraverso quel passaggio segreto.  

Tre tocchi alla porta e poi subito la parola d’ordine: “Hover”. Per fortuna nessun infiltrato, pensò Ernest Kazirra, aprendo ogni volta la porta con circospezione.

Karl si piazzò sulle scale del seminterrato, il suo compito era quello della raccolta gli  oboli. Venti dollari per poter accedere, il resto in base alle necessità.

Ernest sollevò a fatica la cassa e la portò giù dalle scale, posizionandola insieme alle altre.

Prese uno straccio e pulì il lungo rivolo rosso.

La cantina iniziò a riempirsi di un denso fumo grigio, l’odore dei sigari impregnò gli abiti ed oscurò la luce della lampada ad olio.

Karl aprì la prima cassa e nell’aria si sollevò un urlo collettivo. Le mani iniziarono a rovistare nelle tasche e le banconote sgualcite fecero capolino trasformandosi via via in bandiere sventolanti.

“Due, dammene due”, “Io ne voglio tre”. “C’ero prima io, levati di mezzo!”.

Parevano insaziabili. Eppure il discorso del Presidente Roosevelt avrebbe dovuto calmare gli animi.

“Dammi quella bottiglia, bastardo, era mia!”. “Riempimi il bicchiere o ti spacco la faccia”,

Ernest Kazirra sospirò, l’imminente fine del proibizionismo stava minando le sue sicurezze, avrebbe dovuto reinventarsi, trovare soluzioni alternative che gli permettessero di mantenere la sontuosa villa che aveva appena finito di ampliare coi proventi della vendita illegale dell’alcol.

Guardò fuori dalla finestra, gli scuri dei vicini erano chiusi, il sole era sparito dietro alle colline E L’OMBRA DELLA NOTTE SCENDEVA.

− Sono preoccupato, mia moglie passa le sue serate da un bar all’altro.

− Ha il vizio di bere?

− No, ha il vizio di cercarmi.

Gino Bramieri

The perfect man (part 2)


Here “the perfect man part one”

PING…”Buongiorno tesorino bello, dormito bene ?”

Eh no, mo’ lo blocco, si disse Laura, ma quanti cazzo d’anni c’avrà questo? Dieci? Dodici? Saranno almeno quarant’anni che nessuno si rivolge a me in questo modo.
“Non tanto per le parole, che in un saldo rapporto di coppia potrebbero anche starci”, pensò, “quanto per il timbro di voce … e poi lo sa bene che non voglio ricevere file audio”.


Si sedette a gambe incrociate sul tappeto rosso della sua camera da letto, inspirò a lungo dal naso e espirando con forza dalla bocca svuotò i polmoni. Le lezioni di yoga a qualcosa servivano!
Prese in mano il cellulare, contò fino a dieci e con un messaggino lo invitò per l’ennesima volta a non inviare più file audio.

PING… “Ti amo”, le scrisse enfatizzando il tutto con cuoricini BACINI e fiorellini. “Ah beh, ci sono andata vicina con l’età” pensò Laura ridendo .


PING ….”Ecchecavolo un altro messaggio audio. Giuro che se mi chiama ancora “ tesorino bello” lo denuncio per vilipendio alla mia integrità di donna, ci manca solo un DU DU DA DA DA e poi mi trasformo in Jack lo squartatore”. Fissò lo schermo mordendosi una guancia: “ussignur , quaranta secondi di audio, manco i miei figli me li han mai inviai “.


Ohhhm Ohhhm, le gambe erano sempre incrociate, fissò i disegni che risaltavano sul tappeto e con un dito ne seguì il contorno, una mezzaLUNA ed un sole si intrecciavano con varie figure geometriche creando una simpatica simmetria di colori. Prese TEMPO e quando si sentì pronta accostò il cellulare all’orecchio.


“I love you my dear …” I love you my dear… I love you my dear … I want to see you, I want your photo, I want see your legs, your hands , your hairs, I love you, you are the best, I want meet you”.


“Houston? Texas? Questo al massimo è di Gallarate e c’ha pure bisogno di un TSO” , riflettè mentre inoltrava l’audio a Carla, la sua amica del cuore .
“Seeeeeeee, se questo è di Houston io sono Angelina Jolie”, le rispose immediatamente Carla “comunque, fossi in te, il numero di whatsapp glielo darei, giusto per capire dove vuole arrivare a parare, anche se mi pare fin troppo evidente, comunque puoi sempre bloccarlo lasciando attivi solo i messaggini, così eviti che ti stalkerizzi”
Laura scoppiò a ridere, lei e Carla erano amiche da tantissimi anni, la loro amicizia era nata per puro caso e seppur vivendo in contesti completamente differenti condividevano gli stessi prìncipi ehmmm no, PRINCìPI, ovviamente con l’accento sulla seconda “i”.


“Davvero? Davvero davvero davvero? E come mai hai cambiato idea!?” le chiese enfatizzando il tutto con cuori fiori e quadri, mancava solo il picche, quello che gli avrebbe dato lei, se non la smetteva di comportarsi in quel modo così infantile.

Fu così che la loro “amicizia”, nata su Messenger , venne affidata ai piccioni viaggiatori di whatsapp con buonapace di John e probabile rassegnazione della di lui consorte.

Il cellulare squillò alle ventidue, Laura aveva appena indossato il pigiama blu con la scritta “ Follow your dreams”. Nessuno le telefonava mai a quell’ora, si chiese chi potesse essere, sicuramente non John , erano trascorsi mesi da quando Carla la convinse a cedere alle implorazioni di quello che inizialmente aveva soprannominato Narciso Man ma col passare del tempo aveva cominciato a ricredersi, in fin dei conti non era poi così male. Certo, c’erano ancora tanti punti oscuri, ma per il tipo di amicizia che si era creata, a lei non interessava più di quel tanto. Le andava bene così, chiacchieravano in chat, lei aveva messo dei paletti e seppur a fatica era riuscita a mantenerli. Alle sue richieste esplicite lei tirava fuori ogni volta il due di picche e la cosa moriva lì.

In quei mesi John le aveva inviato diverse foto e video personali attenendosi alle regole, solo una volta aveva cercato di mostrarle il suo coso ma Laura lo aveva stoppato e le loro conversazioni si erano attestate su un piano meno intimo ma sicuramente più interessante da un punto di vista della conoscenza reciproca. Fu grazie a quelle foto ed a quei video che Laura scopri la passione di John per il volo.

Si, perché John, oltre ad essere un ingegnere petrolifero aveva conseguito anche un brevetto di volo e nel tempo libero si dilettava noleggiando piccoli bimotori coi quali lasciava il suo isolotto sperso nel mediterraneo e raggiungeva il continente . In un emozionante video John le mostrò un atterraggio di emergenza compiuto a Fiumicino in una giornata proibitiva, il lungo scambio di informazioni con la torre di controllo e la sua voce agitata avevano fatto breccia nel cuore di Laura: in quell’occasione , John, aveva rischiato veramente di non farcela.


Al terzo squillo Laura sussulto’, si era persa nei suoi pensieri, prese in mano il cellulare, e fissò lo schermo: numero privato”. Rispose. All’altro capo una voce maschile, forte e schietta, tipica di chi è abituato a dare ordini, la fece rabbrividire. “Domattina alle otto e non ne faccia parola con nessuno”, le disse.

Fu così che Laura si ritrovò immischiata in quella che in seguito definì “una giusta rivalsa”.

TO BE CONTINUED.

Niente è più visibile di ciò che è nascosto”.
CONFUCIO

THE PERFECT MAN (part.1)

(dammi tre parole: INCONTRO EQUILIBRIO CASSA)


“E dai suuuuu, scrivimi il tuo numero di whatsapp. In mare la connessione non funziona”.


La loro amicizia, se così la si può definire, nacque solamente un’ora prima di quel fatidico messaggio. Fu lui a contattarla attraverso messenger, senza che lei avesse mai fatto nulla per agevolare tutto ciò. Non un messaggio equivoco, mai una foto che mostrasse la mercanzia ed ancor meno qualcosa che potesse far pensare, ad un qualsiasi mortodifiga, che dall’altra parte ci fosse una persona disposta a perdere il proprio tempo ingrassando l’ego di uno dei tanti narcisi che popolano la rete.


“Mi spiace, non do il mio numero a sconosciuti”.
“Sconosciuti? Ma se ti ho raccontato tutto di me, ormai siamo amici!”.


Eh già, che sciocca … e pensare che lei aveva sempre creduto che le amicizie si costruissero col tempo, messaggio dopo messaggio, condivisione dopo condivisione. Era così che aveva sempre funzionato nella sua vita.
Sorrise a sé stessa, ripensando a ciò che Narciso le aveva appena raccontato di sé e riflettè sulle modalità di approccio che rispecchiavano un cliché ben collaudato … e decise di rimanere al gioco.
Non per masochismo o ancor peggio per autolesionismo ma semplicemente per approfondire il lato oscuro della mente umana. Ci era già passata nella sua vita, aveva già avuto a che fare con un narciso e dopo un tempo fin troppo lungo era riuscita a distaccarsene. Ormai si era fatta gli anticorpi e nulla e nessuno sarebbe riuscito ad intaccarla, ma la curiosità di approfondire quel modus operandi, fin troppo standardizzato in un certa tipologia di uomini, la incuriosiva.


Fece scorrere il mouse a ritroso, nella chat di Messenger e si soffermò sulla vita di Narciso.


“Mi chiamo John Smith (ma vaaaa, almeno ha avuto il buongusto di non presentarsi come John Doe) sono un ingegnere petrolifero di Houston, Texas. Sono separato e non ho figli. Vivo e lavoro in Italia, in pieno mediterraneo, ma la mia casa è in America, ho cinquant’anni, amo tantissimo leggere e cerco una compagna”.
“WOW che culo”, scoppiò a ridere Laura, “l’uomo perfetto CERCA ME, PROPRIO ME ME ME MEEEEEE 🤣🤣🤣 !”
John Smith tornò alla carica: “Se ti scrivo il mio numero, mi aggiungi su whatsapp? Non possiamo continuare su Messenger, ho problemi di connessione qui nel mediterraneo e mi spiacerebbe perdere la nostra preziosa amicizia”.


L’insistenza di Narciso iniziava a darle sui nervi, era palese che la necessità di spostarsi su altri lidi telematici non fosse dettata dal wifi ballerino ma dal timore di venir sorpreso dalla propria consorte incazzata nera perché stanca di esser presa per il culo da un uomo di merda. Anche perché, diciamocelo, il sistema di crittografia end to end di whatsapp non è supportato da piccioni viaggiatori che volano in EQUILIBRIO sulle onde radio fischiettando allegramente “Nel blu dipinto di blu”… in qualche modo la connessione dovrà pur funzionare, “anche in pieno Mediterraneo”. “No, grazie”, gli rispose, ”se ti fa piacere possiamo continuare a scriverci su messenger, raccontami qualcosa di più su di te, dove lavori esattamente?”.
“Te l’ho detto, lavoro in pieno mediterraneo. Vivi con i tuoi figli? Ti va di darmi il tuo numero? Vorrei conoscerti meglio. Cosa stai facendo adesso?”
“Ecchecazz, ma è come un disco rotto”, pensò Laura rispondendo volutamente con una provocazione “Sto leggendo Il Ritratto di Dorian Gray”, lo hai mai letto? Quali sono i tuoi gusti letterari?”.
Ma la provocazione si disperse nel mare della stupidità e nonostante i suoi sforzi le onde continuarono a restituire oggetti di scarso valore morale e sociale “Leggo libri che parlano del mio lavoro. Cosa hai mangiato oggi?”.


La voglia di troncare fin da subito quella conversazione così sfinente era tanta ma la curiosità di comprendere fino a che punto sarebbe arrivato Narciso Man le diede la forza di proseguire. Le avrebbe chiesto un INCONTRO ? oppure di foraggiarlo economicamente prelevando dalla CASSA tutti i suoi averi? Le avrebbe promesso un matrimonio fantastico in una chat di mezzanotte mentre la moglie dormiva incazzata nera nella stanza accanto?


TO BE CONTINUED…

“Non sarò mangime per il tuo ego” (anonimo)

L’iniziazione

Alla fine c’era andata, forse più per curiosità che per altro, voleva vedere coi propri occhi fin dove sarebbe arrivata la stupidità umana .

Ma subito se ne penti’. “Dovrei essere altrove”, si disse ripensando a quello stupido meme condiviso su Facebook da chi crede ancora in Babbo Natale… ma sì dai, lo conosci anche tu, è quello del fiume, della riva e del cadavere che passa.

Prese un sassolino e lo lanciò nell’acqua  sollevando un leggero schizzo gelido che le bagnò la caviglia.

“Che te frega, Patrizia , tu vacci”, l’aveva incoraggiata suo cugino Alessandro, “è un modo come un altro per stargli vicino e stai serena,  ce la farà…”. 

Narra la leggenda che tanto leggenda non è , che a monte del fiume Zaffiro, dietro al Garlente,  avvengano  strani riti tribali accompagnati da sacrifici umani … no, tranquilli, niente di macabro o passibile di denuncia . Molto più semplicemente un gruppetto di giovani idioti si riunisce saltuariamente  portando con se’ un cospicuo quantitativo di cibo e di alcol. All’iniziato di turno viene concessa la facoltà di bere e di mangiare, anche a piccolissimi sorsi o bocconi , a condizione però che ciò avvenga ininterrottamente per 24 ore di fila. Se l’imberbe adepto  non dovesse riuscire nel proprio compito , tutti i suoi averi compresi abiti, soldi e cellulare verranno gettati nella corrente del fiume ed il suo corpo nudo lasciato al pubblico ludibrio  .

“Corre voce che il rito sia iniziato  ieri ”, insistette quella mattina Alessandro, con un messaggino su whatsapp , “il tam tam del liceo dice così  “.

Patrizia si sollevò da terra pulendosi meccanicamente i jeans, si sedette su un masso  sul greto del fiume  e attese  paziente. Sapeva  bene che l’iniziato di turno sarebbe stato Daniele, tra di loro c’era molto di più di una semplice infatuazione, ma era consapevole di non poter fare nulla, senza quel rito difficilmente sarebbe stato accettato dai suoi compagni di liceo e a quell’età , si sa, sentirsi accettati è di vitale importanza.
 “Dimmi la verità, Daniele , è  in questi giorni, vero? Ho visto che hanno già creato l’evento su Facebook”, gli aveva chiesto qualche giorno prima. Ma Daniele non voleva preoccuparla e poi tra le regole della confraternita c’era quella di non rivelare a nessuno  la  data degli eventi.

Patrizia guardò il fiumiciattolo sperando in cuor suo di non veder affiorare nulla, segno che il rito, per quanto idiota ,  s’era concluso vittoriosamente.

Scrutò a monte e poi a valle. Accampati  lungo la riva i ragazzi dell’ultimo anno sembravano avvoltoi in attesa di fiondarsi sulla preda, ma al posto degli artigli sfoggiavano cellulari con fotocamere da far invidia ai tecnici della Nasa. “Idioti” pensò Patrizia accarezzando l’acqua gelida . “E idiota anche lui, che non è riuscito a dire di no a questa stronzata ”.

Prese in mano il cellulare e aprì la pagina Facebook creata dalla confraternita di bimbiminkia, “perché è questo che sono”, si disse. Al suo interno la narrazione del rito, senza nomi, senza riferimenti temporali, senza nulla che potesse insospettire il direttore didattico, anche se Patrizia era certa che ne fosse al corrente. Nella parte superiore un riquadro lasciato in bianco avrebbe ospitato un piccolo video  con l’esito dell’iniziazione: il lancio degli abiti nel fiume o la consacrazione con tanto di rasatura del cranio .

Patrizia ripose il cellulare nello zainetto, sopra agli abiti che aveva preso dall’armadio di suo fratello “tanto hanno la stessa taglia” si disse.

Sapeva che Daniele era determinato e che avrebbe portato a termine il rito  “ma non si sa mai, anche perché non regge l’alcol, se dovesse farcela gli ci vorranno giorni per riprendersi dalla sbornia”, aveva detto poco prima ad Alessandro, mentre riponeva nello zaino oltre a jeans e maglietta anche un bel thermos di caffè .

Ma se le cose fossero andate male, avrebbe almeno cercato di togliere a Daniele l’imbarazzo della nudità .

Frammenti della loro relazione, seppur iniziata da poco, le tornarono alla mente. Il loro primo bacio, la loro voglia di spingersi oltre ma il timore di non essere ancora pronti, la necessità di comprendere meglio  i  rispettivi sentimenti. Per Patrizia sarebbe stata la sua prima volta e ci teneva affinché fosse indimenticabile.

Improvvisamente delle voci sovrastarono il mormorio dell’acqua e divennero via via sempre più concitate.

Qualcosa stava avvenendo .

Scrutò attentamente il fiumiciattolo poi prese in mano il cellulare. Il riquadro era ancora bianco .

Guardò  il sentiero che costeggia il fiume stringendo con forza lo zaino, pronta a correre in suo soccorso qualora fosse stato necessario, sperando così di limitare al massimo la gogna fotografica.

Poi un improvviso refresh e sulla pagina di facebook si materializzò una foto , Patrizia lo vide,  era stanco, provato, sicuramente brillo, ma con lo sguardo fiero di chi ce  l’aveva fatta. Fissò quel cranio lucente leggermente bitorzoluto;  la folta capigliatura mora che aveva accarezzato tante volte era sparita, rasata dal branco di bimbiminkia. Ricresceranno, si disse.

Salvò velocemente sul cellulare  la foto prima che la pagina venisse definitivamente chiusa, tirò  fuori dallo zaino il thermos, lo aprì e bevendo  un sorso di caffè tirò un sospiro di sollievo.

Il rito si era compiuto. Domani sarebbe stato un altro giorno, altri “cadaveri” sarebbero passati lungo il fiume, ma per lui, per loro, tutto ciò sarebbe stato un piacevole ricordo … da raccontare ai nipotini . Chissà !

VI RICORDATE IL POST DI IERI?

Quello dove io e Liberamente, la mia compagna di blog e di scarpe, abbiamo raccontato il giochino del “dammi tre parole…“ma che non siano sole cuore e amore”.

Ebbene, il post che avete appena letto è il frutto di tutto ciò.

Le parole chiave? GIOVANI, FIUME, FRAMMENTI.

Ora tocca a te, Liberamente,

a che punto sei con

GAMBO CIBO e DISEGNO?

Vi va di giocare con noi?

Scriveteci tre parole, le trasformeremo in un post

🙂

Dammi tre parole …

… ma fa’ che non siano “sole cuore e amore”.


Alle volte le serate migliori nascono così, per puro caso, con tre semplici parole.
Ed è proprio in questo modo che io e la mia compagna di blog ci salutiamo ogni lunedì sera.
Con tre semplici parole, scelte a caso nel casino della nostra mente o nel libretto delle istruzioni della lavastoviglie dopo una serata giocosa trascorsa in compagnia di un libro, di un computer e di una connessione alla rete… e con queste tre parole ci ripromettiamo di rivederci il lunedì seguente.


Sette giorni, sette lunghe giornate nel corso delle quali riflettere per riuscire a scrivere qualcosa di leggibile e che racchiuda quelle tre semplici parole che, come canta Mina, potrebbero essere semplicemente “parole parole parole, parole soltanto parole, parole tra noi”.

E se ancora non fosse chiaro, lo riassumo in soldoni: “ci assegnamo a vicenda tre parole scelte a cazzum e con quelle dobbiamo costruire una storia da condividere sul blog la settimana seguente”.

Il mio compito per questa settimana ? “GIOVANE FIUME FRAMMENTI”.

A domani, con “L’INIZIAZIONE”

“Patrizia guardò il fiumiciattolo sperando in cuor suo di non veder affiorare nulla, segno che il rito, per quanto idiota , s’era concluso vittoriosamente”

LA PORTA

Laura si avvicinò alla porta socchiusa.

Cosa faccio? Si chiese.

Sapeva che se avesse varcato quella soglia nulla sarebbe stato più come prima.

Avanti, si disse, non è difficile.

Avvicino’ la mano alla maniglia , l’abbasso’ e con uno scricchiolio la porta si aprì. Un leggero profumo speziato la avvolse e finalmente realizzo’ di aver preso la decisione più saggia della propria vita .

Ora non le restava altro da fare che seguire delle poche e semplici regole e nel giro di poco tempo tutti i tasselli sarebbero tornati al loro posto .

Le tette si sarebbero distinte dalla pancia . I glutei sarebbero tornati sodi. Il mento, quello secondario, sarebbe stato riassorbito lasciando il posto a quello di default, le cosce avrebbero smesso di fare ciac ciac una contro l’altra e le ali di pipistrello sarebbero tornate a definirsi avambracci .

Laura si voltò per chiudere la porta dietro di se’ e per un lungo istante fisso’ la targhetta con la scritta rosso fuoco. Non era la prima volta che leggeva quella scritta ma solo ora aveva realizzato il valore intrinseco di quelle tre semplici parole . No, non sarebbe tornata indietro, ormai il primo passo era stato fatto . Chiuse con cura la porta alle sue spalle, sollevo’ il mento, inspirò profondamente e … buon anno ricco di buoni propositi a tutti .

Quando sai quello che vuoi, e lo vuoi con abbastanza forza, troverai un modo per averlo.
(Jim Rohn)

Una giornata di ordinaria follia.

 “Beh? Che voleva quella? “
“Cazzo ne so, si sarà sbagliata! “
“Sì, certo come no? e  s’è sbagliata pure con la targa…come s’è sbagliato quello di Firenze … e poi che hai fatto, gliel’hai data la cassetta?” –
 “Per forza, quella stronza stava chiamando la pula, sì ma se domani non me la riporta vado a casa sua e le faccio un culo così”.
Non era la prima volta che Francesco si smentiva in questo modo, probabilmente non se ne rendeva neppure conto.  “Ma se hai detto che non sai chi è, come fai ad andare a casa sua?”   Francesco rimase per un attimo in silenzio, si morse il labbro e poi, con tono basso ma secco, rispose “Dove cazzo sei stata questo pomeriggio? Ho chiamato a casa e non hai risposto!”

Il telefono squillò una domenica di inizio estate. “Pronto, sì è mio marito, non è in casa, posso riferire qualcosa?” all’altro capo una voce con forte accento toscano la apostrofò  “DiHa a quel  HHojjone che se si azzarda ancora a molestare una disabile lo ammazzo personalmente, Harolina non si tocca, chiaro?”.
“Con chi parlo, mi dica almeno il suo nome”.  “Vanni” e riattaccò.  
Laura rimase a lungo con il telefono appoggiato all’orecchio. Che faccio? Chiamo il 112? Il 113? Il 118? Che numero si fa in caso di emergenza?  Alla fine desistette, per vigliaccheria , per non finire sulla bocca di tutti. “Lo sai? Tè sentì? Sì sì propi chel là.  A’ man dì che al fasea ul spurcasciun …”.
No, non ce l’avrebbe fatta a sostenere gli sguardi e le parole lasciate a metà dalle solite comari che si accampavano sui gradini dei plessi scolastici ad attendere che i loro pargoli finissero di denigrare il compagno di banco .
“Ma stavolta non la passa liscia”  urlò a sé stessa mentre riagganciava con forza il telefono.
“Ti dice niente “Carolina”?”  Lo affrontò così, d’impeto, senza preamboli, appena rientrò per cena.
“Carolina chi, quella della Pizzeria? Che dovrebbe dirmi?” rispose con una risata forzata, muovendo la testa a scatti alla ricerca di un punto di ancoraggio, qualcosa che gli permettesse di non cadere nel precipizio e lo trovò  . “Che si mangia stasera? C’è un profumino fantastico, che hai fatto, pasta al forno?  Mmmhhh deve essere fantastica”.


“CICUTA! ” sbottò Laura “cicuta rosolata con pancetta ed una manciata di parmigiano, poi vediamo dove va a finire la tua boria, smettila di fare il cretino. Ca-ro-li-na, Carolina la toscana, cos’hai da dire!”
“Non so di chi cazzo parli e non me ne fotte una sega”, urlò Francesco a pochi centimetri dal suo volto, il suo sguardo era torvo e le pupille parevano sfere d’acciaio.
“Che succede, pà, perché alzi la voce?”
“Nulla, Paolo, nulla, stiamo solo parlan…. Va’ che sei sporco di sangue, lì sotto al mento,  un po’ più a destra,  ancora un po’,  ecco sì,  lì così…tieni,  pulisciti e non usare le lamette vecchie.  Dai, torna in camera tua,  io e mamma stiamo solo parlando è che lei è la solita, lo sai, fa sempre così. Ti chiamo quando è pronto e dì ai tuoi fratelli di abbassare lo stereo. Laura, dacci un taglio, non so che ti frulla per la testa ma vedi di toglierti quelle strane idee, Paolo ti ho detto di andartene in camera tua, cazzo non ascolti mai!”.
Ma Paolo non aveva nessuna intenzione di schiodarsi dalla porta della cucina, appoggiò la schiena allo stipite, incrociò braccia  e gambe e rimase immobile, fissando i genitori attraverso le lenti degli occhiali da vista,  consapevole che la sua presenza avrebbe raffreddato gli animi. E Carolina svanì, nel cassetto degli orrori custodito da un Barbablù con le pupille d’acciaio.

“Allora, Che ci facevi in quel bosco?”
Io? Che ci faceva lei semmai, rispose Francesco senza scomporsi, io stavo solo riprendendo una coppia di merli, è lei che ha la coscienza sporca.
“Certo, Merli, ora si chiamano così …. e la cassetta dov’è?”
“Boh, da qualche parte nello studio, sulla libreria credo, ha cancellato tutto quella stronza ma se la ribecco non la passa liscia”.
“Se la ribecco… ha cancellato tutto… ma ti ascolti quando parli?”
Laura era seriamente preoccupata, non per le minacce, perché tanto sapeva che erano  tutte un bla bla bla, quanto per il timore che la situazione potesse degenerare perché quelle che inizialmente considerava coincidenze e che l’avevano portata  a credere che in fin dei conti fosse solo un po’  sfigato, iniziavano ad assumere proporzioni rilevanti. “Ma forse”, si disse per l’ennesima volta, “sono io che ho la mente contorta, non può essere davvero così”. 

Non fu facile suonare nuovamente quel campanello.
“Ciao Valentina ti ricordi di me? Ci siamo viste la settimana scorsa”.
“ah signora Laura, sì mi ricordo di lei”.
“Dammi pure del tu, Valentina, ti fidi di me vero, ti ricordi che eravamo diventate amiche? ”.
A Laura pareva strano parlare così ad una donna molto più grande di lei. “Si mi fido, ma il signor Francesco mi ha detto che non devo parlare con nessuno, mi ha detto che mi devo fidare solo di lui, lui mi vuole bene, mia sorella si è arrabbiata ma io le ho detto che non si deve intromettere perché io sono grande”.
Valentina parlava a ruota libera, innocentemente, come solo una bambina in un corpo da donna riesce a fare.
“Valentina, cosa fate  te ed il Signor Francesco quando viene a trovarti?”
La donna si irrigidì. “Niente” rispose in fretta  “lui è una brava persona, mi viene a trovare, alcune volte mi porta dei regali ma io non posso mangiare le caramelle, mia sorella non vuole e io glielo ho detto al signor Francesco e poi mi telefona e mi dice che mi vuole bene e che gli manco tanto e che vuole incontrarmi ma io non ho il suo numero e non lo posso chiamare”.  Laura era dispiaciuta, si capiva che quella donna dall’aspetto minuto era stata manipolata, non necessariamente per ottenere in cambio un rapporto sessuale, alle volte gli bastava molto meno, una sbirciatina, una toccatina … tanto lei non si sarebbe opposta, come le altre, del resto.

La voce che proveniva dall’altoparlante aveva quasi coperto il lungo biip del messaggino “Si avvisa la gentile clientela che è iniziata la nuova raccolta punti”. Laura aprì whatsapp “Lamette”,  Paolo non era particolarmente espansivo e i sui messaggi erano sempre molto stringati.
“Chiedi ai tuoi fratelli se hanno bisogno d’altro”.
“Nulla”, rispose Paolo. 
Laura insistette “Senti Sabri e Alessandro e fammi sanare”.
“Sanare?”
“Uffa, dai hai capito, è il t9, fammi sapere e dì a Sabri che le ho preso l’antibiotico”.
Ripose il cellulare nella tasca dei jeans e proseguì tra le corsie, depennando dalla lunga lista della spesa tutto ciò che metteva nel carrello.
“Eccallà, finalmente, tre ore … cazzo hai fatto in tre ore?
La spesa, rispose Laura a denti stretti fissando lo sguardo incattivito di Francesco “e comunque non son tre ore… ma se anche lo fossero non vedo il problema, se mi aiuti a scaricare la macchina invece di incazzarti ti rendi conto di tutto quello che ho acquistato”.
Ma l’ira di Francesco non si placava. Palle, sei una contapalle, ho controllato i chilometri, dove cazzo sei andata?
Laura iniziò a fremere, non aveva nulla da nascondere, avrebbe voluto mandarlo a quel paese ma l’odore di alcol lo avvolgeva come un’aurea torbida e sapeva che qualunque risposta avesse dato avrebbe portato all’ennesimo scontro.
“Allora, ALLORA, ALLORA?”, incalzò lui.
“Calmati dai, lo vedi anche dai sacchetti, macellaio, fruttivendolo, Iper e sono pure passata in farmacia, ci vuole tempo”. “Bugiardaaaaa”, le urlò contro “con chi cazzo ti sei incontrata!!!” Il telefono squillò.  Francesco rispose. “E’ tuo figlio”, le disse porgendole la cornetta in malo modo. Laura rispose, sapeva giù il motivo di quella  chiamata “Mà, ho sentito tutto, stiamo al telefono così papà si calma …”

La prima volta che Laura entrò in Associazione lo fece con le lacrime agli occhi , si sentiva una fallita, ma forse, pensò, sto sbagliando davvero tutto, in fin dei conti non è cattivo, non mi ha mai messo le mani addosso a parte..vabbè ma quello è stato un caso”.
Patrizia l’accolse con un sorriso ed una forte stretta di mano.  Laura non aveva grandi aspettative, si era recata in associazione su insistenza di sua sorella che teneva monitorata la situazione.
“Non è colpa tua”, le disse Patrizia dopo aver ascoltato a lungo i suoi sfoghi, “sta proiettando, ti accusa di fatti compiuti da lui, tienilo sempre a mente soprattutto nei momenti più difficili e chiamami a qualunque ora, anche di notte, ricordati che non sei sola”.
Scarabocchiò il proprio numero di cellulare su un foglietto e glielo porse. Patrizia non era un’operatrice e neppure un medico, era semplicemente una donna che era passata attraverso delle dinamiche simili e aveva superato i momenti critici con la forza e  la determinazione. Forse fu proprio questa consapevolezza che spinse Laura a lasciarsi andare, raccontandole nel tempo ciò che mai aveva osato raccontare a nessuno e Patrizia diventò così il suo angelo custode.
“So che sorriderai”, le disse un giorno porgendole una scatolina di cartone. Laura la aprì, al suo interno, adagiato su un panno colorato, un pezzo di sapone. “Ogni volta che lui ti accuserà di qualcosa o ti vieterà di uscire o di parlare, tu ripensa a questo dono e a ciò che esso rappresenta”.

La prima volta che sentì parlare di narcisismo perverso fu per puro caso, seguendo in televisione un caso di violenza in famiglia. Ma lui non è così, si disse ancora una volta.
“Cosa ti fa pensare che lui sia diverso?”, le chiese  Anna nel corso di una delle tante sedute di psicoterapia.
A questa domanda Laura non aveva risposte. Semplicemente negava a sé stessa una realtà ancor più dolorosa.
“Non puoi fare nulla per lui, puoi solo fare qualcosa per te stessa”
Sì, ma che cosa?  Laura si aspettava risposte concrete, avrebbe voluto che qualcuno le dicesse cosa fare, che le presentasse un elenco di azioni da compiere, magari in ordine cronologico o anche solo alfabetico. Tac Tac Tac, problema risolto.
Ma non fu così.
Laura non aveva bisogno di elenchi perché gli elenchi li conosceva già, facevano parte del suo patrimonio genetico, Laura aveva solo bisogno di tornare ad essere sé stessa.

“Che palle, anche stasera è arrabbiato”, pensò Laura sentendo sbattere la porta.
“Chi c’era in casa?”
“Nessuno chi vuoi che …” – “Non dire cazzate, ho visto una Peugeot rossa con una portiera ammaccata che ripartiva!”
“Qui non è venuto nessuno” rispose Laura decisa “i vicini hanno acceso la griglia, sarà stato un loro parent…” –  “balle era qui, chissà che cazzo fai quando non ci sono… e le mie liquirizie? Dove sono le mie liquirizie!!!”.
Laura rovistò nella borsetta, tieni, gli disse porgendogli un pacchetto ancora nuovo “e vedi di calmarti, io vado a fare una doccia”.  Entrò in bagno, si chiuse a chiave, aprì l’acqua e si sedette su uno sgabello, aveva bisogno di parlare con il suo angelo custode. “Patrizia, sono preoccupata, oggi ho parlato con Vanni, le cose si mettono male, era agitato, mi ha implorata di aiutarlo. Fra’ non sa nulla, o almeno credo, ma oggi è più intrattabile del solito. Non so che fare Pat, non voglio finire nei guai, ma Vanni mi ha chiesto di…“ “Che cazzo fai li in bagno, con chi parli?”
“Con nessuno ora esco”
“Patrizia”, sussurrò al telefono “ora non posso parlare. Ti richiamo appena possibile.”. Chiuse frettolosamente la chiamata e si infilò sotto la doccia per bagnare i capelli, poi indossò l’accappatoio ed aprì la porta “neppure in bagno posso stare tranquilla?”.
Ma Francesco non riusciva a calmarsi, continuava a camminare avanti e indietro da un locale all’altro, alzando la voce, imprecando, offendendo, minacciando. “Siete tutte uguali voi donne, siete delle stronze”, urlava senza apparente motivo  Poi iniziò a picchiare i pugni sulla porta, vide il cellulare che Laura aveva appoggiato sul tavolino, lo prese e lo scaraventò con forza contro al muro. “Così la smetterai con tutti quegli uomini, puttana PUTTANAAAAA!”

Laura si spaventò,  non aveva mai temuto per la propria incolumità ma quella sera le sue certezze iniziarono a vacillare . “Mamma ti prego fai qualcosa” la supplicò Sabrina agitatissima, i suoi fratelli si erano chiusi nelle loro camere pronti ad intervenire se fosse stato necessario.
 “Sabri, io esco, vado da Lucille, se non mi vede magari si tranquillizza, il cellulare è rotto ma se hai bisogno sai dove trovarmi”. Si vestì rapidamente prese il giaccone ed uscì di casa con le lacrime agli occhi. I capelli erano ancora umidi, sollevò il cappuccio cercando di ripararsi  la gola con il bavero ma il freddo le penetrava nelle ossa.
Si incamminò lentamente lungo la via, cercando di non dare troppo nell’occhio.  Alle sue spalle una voce agitata le urlò “Dove cazzo vai, Giovanna, torna indietro, i panni sporchi si lavano in casa”. Troppo comodo, pensò Laura allungando il passo. Si asciugò le labbra bagnate di lacrime e suonò il campanello.
Lucille Laurent  aprì la porta che dava sul salotto.
“Mon Dieu, Laura cos’è successo? Vien entre, tes mains sont glacée, ti preparo  un the caldo” .
“Ti ringrazio Lucille, non mi va nulla, preferisco restare qui fuori”, si sedette su un gradino fissando un secchio di macerie e dei mattoni abbandonati in un angolo “A che punto sono i lavori?”. Non attese risposta. “Prestami il cellulare… ho parlato con Vanni, ho paura, non so se sto facendo la cosa giusta. Frà è completamente fuori di testa, poco fa si è confuso e mi ha chiamata Giovanna,  non so chi sia, sarà una delle tante”.  

Con le mani tremanti compose quel numero che conosceva a memoria. Mi odierà, si disse, ma subito ripensò a quel pezzo di sapone che Patrizia le regalò in Associazione.  Laura lo conservava ancora, era  il simbolo della rinascita, la consapevolezza che i panni sporchi, se  lavati nelle giuste sedi, tornano lindi e profumano di libertà.

Un leggero rumore la fece trasalire, sapeva che l’aveva seguita ma non lo temeva, eppure … c’era  qualcosa di strano nell’aria. “Vattene” urlò serrando i pugni “ho bisogno di stare sola”.

”Poi  improvvisamente un bastone si sollevò, Laura lanciò un urlo, il cellulare che teneva in mano cadde per terra.  Un dolore lancinante alla spalla la fece barcollare ed il suo corpo iniziò a tremare.
Delle figure uscirono dall’ombra, Laura incrociò il viso di una donna che la stava soccorrendo “Stai Halma, le disse  tenendola stretta in un abbraccio materno, “lo sai, non ce l’abbiamo Hon te”,  Laura fissò quegli occhi chiari contornati di rimmel e quelle labbra che ancora profumavano di liquirizia e sussurrò “mi avevi detto che volevate solo parlargli …”.
“Oh Hoglione, a te oh sapevi che a dovevi lascià stare” urlò Vanni sollevando un mattone. Francesco parò il colpo con la mano ma cadde per terra, un uomo molto più giovane e tarchiato lo colpì alle spalle, Francesco si rotolò sull’asfalto ma subito si rialzò riuscendo a sferrare un pugno nello sterno di Vanni che si accasciò sui gradini. Approfittando di un attimo di distrazione l’uomo tarchiato afferrò Francesco da dietro  le spalle serrandogli le braccia, Vanni si sollevò e lo colpì con un calcio al basso ventre.
 “Hosì forse Hapirai, neanche pè piscià lo potrai più usare”.
Francesco si raggomitolò sull’asfalto gemendo e il  suo respiro divenne affannoso.
Si rialzò con molta fatica, barcollando, sembrava si fosse arrivati all’epilogo quando di colpo Francesco afferrò Vanni per la camicia ma si sbilanciò e cadde per terra, l’uomo tarchiato gli piombò addosso e lo bloccò  colpendolo ripetutamente sui reni.
Sfinito, con gli abiti lerci e la bocca impastata di terra e di sangue  sussurrò “non sapevo che fosse disabile”.
L’ira dei due uomini, che pareva placarsi, si riaccese.
 “Bujiardo, sei un bujiardo, l’hai circuita, le dicevi  come muoversi, Hosa indossare e Hosa togliere… le dicevi che era speciale, la chiamavi la donna con le ruote d’acciaio, le avevi promesso un futuro meraviglioso e lei ci aveva creduto. Dovresti vergognarti, sapevi che era fragile e invece sei ancora qui a raccontare balle e ora lei…lei …. “
Vanni sollevò un braccio,  pronto a sferrare l’ennesimo pugno, ma d’improvviso  si accasciò per terra, stremato.
E pianse.

Dall’abitazione giunse una voce concitata  “Police Police aiuto, lo stanno ammazzando”.

All’arrivo dei soccorsi la banda si era già dileguata a bordo di un’auto parcheggiata in una via laterale. Laura ripensò a quella figura femminile con gli occhi chiari contornati di rimmel. Una figura importante,  una donna forte nonostante l’età, una donna abituata a sostenere il peso di una figlia disabile, adulta nel corpo ma fragile nell’anima.

Per terra un corpo tumefatto si contorceva dal dolore ed imprecava a gran voce. Era vivo, almeno quel tanto che bastava per raccontare la propria versione dei fatti ai figli che nel frattempo erano giunti, attirati dal via vai delle sirene.

Laura si sedette sui gradini fissando le macerie,  afferrò una piastrella sbeccata e la lanciò con forza in un angolo buio. “Fanculo”, urlò a sé stessa ma  una fitta alla spalla  la fece irrigidire, serrò le mascelle e spostò il busto cercando di attenuare il dolore.

Venga signora, la accompagniamo in ospedale, ma Laura rifiutò, voleva tornare a casa, aveva bisogno di una doccia calda e del suo letto, aveva bisogno di pensare, di riflettere … di riposare.
“La aspettiamo domattina in caserma, ma stia tranquilla, li prenderemo, probabilmente già questa sera”.
Laura ripensò a quella visita inaspettata, erano trascorse poche ore ma le parevano un’eternità.
“Ti prego, aiutaci, fa’ He esca, ce vojjo  parlà ”, le disse Vanni un attimo prima di allontanarsi a bordo di una Peugeot rossa con la portiera ammaccata.
Laura li aveva aiutati, l’aveva fatto per Carolina, per Valentina ma soprattutto per sé stessa. Forse, l’indomani, quel cassetto degli orrori  sarebbe stato finalmente spalancato e Barbablù sconfitto.

Il telefono per terra squillò, Laura lo sollevò e rispose, all’altro capo una voce nota le ricordava il profumo di sapone e di bucato pulito.
“Ho ricevuto una chiamata da questo numero, con chi parlo?”

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale. Anche se qualcuno potrebbe riconoscersi nei dialoghi riportati benchè siano assolutamente ripresi, romanzati e riassunti gli aneddoti riportati sono a titolo esemplificativo di fatti verosimili.

Legittima Difesa

La voce ferma e possente del giudice Watson squarciò l’aria, la tensione nell’aula del tribunale salì alle stelle. “Sono stati  trovati tre cadaveri, tutti appartenenti al medesimo nucleo familiare. Sappiamo che è stato Lei.  Cos’ha da dire a sua discolpa?”

John Smith si rannicchiò sulla seggiola lo sguardo vacuo perso nell’aria, il giudice fissò l’omuncolo e tuonò “Avanti, vuoti il sacco”.

John sobbalzò e come un fiume in piena iniziò a snocciolare gli eventi .

“Ho conosciuto Kate una settimana fa e ci siamo subito innamorati. Le ho proposto una tavolo da “Peppapig” ma lei ha preferito organizzare una cena dai suoi genitori. Mi sono vestito di tutto punto, ho comperato un mazzo di fiori e puntuale come un orologio svizzero mi sono presentato a casa loro.

La cena era già pronta.

Per iniziare consommé di cavolo, carote stufate e salumi vegani. Ho fatto buon viso a cattiva sorte ed ho spazzolato tutto. Poi è stata la volta del primo : Spaghetti di zucchine con peperoni. In quell’istante iniziai a fremere ma decisi di dar loro un’ulteriore chance. Finalmente arrivò il piatto forte, una bella e succulenta bistecca. Presi con foga la forchetta e la affondai nella pietanza.

La carne era talmente tenera che si sarebbe potuta tagliare con un grissino .

Sollevai il boccone e lo avvicinai alle labbra, il profumo inebriante mi solleticava le narici, finalmente avrei soddisfatto anche il palato.

Da quel momento in poi, signor Giudice , i miei ricordi diventano nebulosi. Ricordo solo un forte sapore di soia e di lenticchie, forse anche di broccoli e di aglio. Signor giudice, mi creda, mai in vita mia mi sarei aspettato un simile affronto. Ho accettato il consommé, tollerato la plastilina affettata, sorriso alle zucchine, ma la bistecca vegana… signor Giudice, signori giurati, invoco la seminfermità del palato e chiedo a codesta corte di essere assolto per legittima difesa!

La fame è il condimento del cibo.

4 sfumature di rosso

Convinti di essersi lasciati alle spalle il peggio, Lombardia Calabria Valle D’Aosta e Piemonte erano pronti a godersi una vita intensa di divertimenti e lussuria, quando un bel giorno il bel faccino di Conte proclamò l’ennesimo dpcm e nulla fu più come prima.

Al grido di “non potete toglierci l’attività fisica quotidiana”, le strade si popolarono di runner con la panzetta faticosamente accumulata sotto all’ombrellone.

Nei supermercati farina e lievito tornarono ad essere contingentati e la carta igienica spari’ dagli scaffali ancor prima di pasta e riso.

Di colpo Facebook si riempì di post di gente stupita di non poter più fare questo e quello, come se l’annuncio della seconda ondata fosse qualcosa di inaspettato o come se in estate il bel faccino di Conte ci avesse rassicurati con un annuncio a reti unificate “tranquilli il virus è debellato , fate un po’ come cazzo ve pare”.

Non che lo Stato non ci avesse messo del suo, seppur in buona fede (il che pare un ossimoro). “Andate e moltiplicatevi”, annuncio’ tra le righe del decreto Rilancio, erogando bonus a chiunque fosse stato disposto ad abbandonare il divano di casa … e così fu. Mercatini rionali, spiagge, musei, impianti termali … l’Italia si ripopolo’ di portatori sani disposti a spargere il seme della ripresa in ogni angolo dello stivale, come se quei cinquecento euro donati dal Governo fossero la giusta ricompensa dopo mesi di restrizioni .

Biciclette, tablet, pc e connessioni comparvero come funghi, il sito dell’agenzia delle entrate fu preso d’assalto, dita velocissime riuscirono ad aggiudicarsi l’aggiudicabile e migliaia di biciclette finirono accatastate nelle cantine dopo che i legittimi proprietari si resero conto che, comunque, avrebbero dovuto usare i pedali .

I Sindaci si armarono di santa pazienza, qualcuno pure di Kalashnikov e iniziarono a rispondere ai mille interpelli sui nuovi canali ufficiali : Facebook ed Instagram. “Posso tagliare i capelli dalla mia parrucchiera di fiducia che ha il negozio vista mare ?”, “la pasta vegana di farina di acero del sud del mediterraneo la trovo solo in un negozietto a 300 km, come farò a sopravvivere ?”, “le mie unghie non resisteranno ancora a lungo, aiuto !!!”, “posso svernare nella mia seconda casa in zona gialla, tra le caprette che fanno ciao ?”.

Inizio’ quindi un fuggi fuggi generale, le stazioni vennero prese d’assalto e le destinazioni furono scelte su base cromatica prediligendo i cugini gialli agli zii arancioni .

“STATE A CASA “, intimava Conte , ma a parte le sue bimbe nessun altro se lo cagava .

Finché una notte buia e tempestosa tutte le TV d’Italia, anche quelle accatastate nelle discariche , si accesero all’unisono ed il bel faccino di Conte annuncio’ in diretta nazionale un nuovo lockdown.

Fu così che ebbe inizio “20 sfumature di rosso”, ma questa è un’altra storia .