L’Evento

Elisabeth Lemsh uscì dall’ufficio stringendo la sua preziosa valigetta scamosciata piena di articoli scritti a mano, non aveva intenzione di piangere, lo aveva fatto troppe volte. La delusione nel corso degli anni aveva lasciato posto alla rabbia. “Si rassegni”, le disse il suo caporedattore, “provi a scrivere di moda e folclore o continui con la politica, ma lasci perdere tutto il resto, mi dia retta, è meglio così”.
“Abbia almeno il coraggio di darmi delle motivazioni” rispose Elisabeth esasperata. Non vi fu una vera risposta, se non un balbettio di considerazioni che vertevano intorno ad un unico argomento “sei una donna, comportati da donna!”.


Certo, pensò quella sera Elisabeth guardandosi nello specchio della sua camera da letto, sono una donna, ma il problema non è solo questo. Si accarezzò i lunghi capelli ricci, prese un foulard color sabbia e li avvolse con cura, come le aveva insegnato sua mamma sin da quand’era bambina. Si asciugò una lacrima che scorreva sulla guancia color cioccolato e avvertì sotto ai polpastrelli l’elasticità della pelle priva di rughe “Sono una donna e per di più di colore” disse ad alta voce, fu quasi un urlo,  come a voler allontanare da sé tutto ciò che non le permetteva di sentirsi realizzata.

Eppure l’ultimo anno di liceo suo padre l’aveva avvisata “forse è meglio se scegli medicina, avresti maggiori opportunità”. Ma Elisabeth fu inamovibile, non sarebbe mai riuscita a tenere in mano un bisturi con la stessa disinvoltura con la quale teneva in mano una penna. “Pa’ Swahili”, rispose fiera, “la medicina non fa per me, io voglio girare il mondo, conoscere persone, imparare le lingue, voglio scrivere, scrivere e ancora scrivere, non sarò mai in grado di guarire un dolore ma voglio imparare almeno a descriverlo”. Suo padre annuì, comprendeva le sue necessità e non aveva alcuna intenzione di tarparle le ali.

Swahili Lemsh era arrivato giovanissimo Italia in qualità di diplomatico per il Consolato Ghanese portando con sé sua moglie Muskeba incinta di pochi mesi. Erano passati tanti anni da quel giorno, sua figlia aveva frequentato le scuole pubbliche, presto si sarebbe iscritta all’università e Swahili non si era mai pentito delle proprie scelte. Non era stato facile lasciarsi alle spalle i propri cari in un paese perennemente in guerra per arrivare in un altro Paese altrettanto problematico, l’Europa era sul punto di esplodere, Polonia e Germania erano arrivati ai ferri corti e nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo, ma Swahili era un uomo determinato e grazie alle proprie capacità riuscì ad affermarsi in un mondo che non gli apparteneva e che dava più importanza al colore della sua pelle che non alle sue capacità.

Elisabeth  si sfilò gli stivali e li abbandonò in un angolo della stanza,  appoggiò  la valigetta scamosciata su una mensola,  non aveva voglia di aprirla, sentiva solo la necessità di riposare. Si sdraiò sul letto con il foulard color sabbia ancora tra i capelli e si lasciò andare  ancora  una volta ai ricordi di quand’era poco più che bambina.

“Domenica mattina andremo a Monza”, disse suo padre mentre facevano colazione. Elisabeth lanciò un urlo di gioia, lasciò cadere per terra il quaderno di algebra sul quale stava annotando gli ultimi esercizi prima di andare a scuola e gli saltò in grembo, abbracciandolo. I giornali avevano annunciato l’imminente inaugurazione del nuovo autodromo, ristrutturato dopo il periodo bellico. Swahili, in qualità di diplomatico, era riuscito a farsi rilasciare un pass; non era stato facile anche perché la presenza di Gronchi rendeva molto selettiva la scelta degli invitati. Era a conoscenza ed avallava la passione di sua figlia per il mondo delle auto da competizione e pertanto nel corso degli anni le aveva regalato diverse riviste specializzate che Elisabeth leggeva con bramosia, annotandone i punti salienti su un quadernetto che custodiva gelosamente sotto al materasso della sua cameretta e che abbelliva con riproduzioni dei principali autodromi sia italiani che esteri, realizzati a mano libera. “Pa’ Swahili, ti prego, fammi incontrare Manuel Fangio”, gli chiese quel giorno con sguardo implorante.

Un raggio di sole la svegliò, indossava ancora gli abiti del giorno prima ma il foulard che contornava il suo bel viso era scivolato sul pavimento di marmo. Guardò l’orologio e si stupì, erano anni che non dormiva così profondamente. Per un attimo tornò con la mente all’autodromo, poi si fece forza, si alzò e mise sul fornello una moka di caffè. Si sedette in un angolo della sala fissando l’unico quadro che abbelliva la stanza. Una cornice di legno leggermente intarsiata ed una semplice lastra di vetro incorniciavano il suo bene più prezioso: un foglio di carta leggermente stropicciato. Erano passati tantissimi anni da quando un uomo in polo e giubbotto da lavoro le regalò un sogno “A Elisabeth, segui sempre i tuoi desideri e non lasciarti intimorire dagli eventi. Manuel Fangio”. Non le era sembrato vero, ma quel giorno El Chueco era lì, davanti a lei, le parlava, parlava a lei, proprio a lei e le porgeva un foglio di carta con una dedica speciale, scritta appositamente per lei, per una bimba di colore dai lunghi capelli ricci. “Grazie Pà Swahili, grazie per aver esaudito il mio desiderio”, disse mentre con mano tremante prendeva dalle mani del suo idolo quel foglio di carta stropicciato.

La caffettiera iniziò a sobbollire e nella stanza si avvertì un gradevole aroma di caffè. Elisabeth spense il fornello e riempì la tazzina. “Se fosse stato di un altro colore non sarebbe stato caffè”, pensò fissando la bevanda nera e fumante “Sarebbe stata comunque una bevanda piacevole, ma non sarebbe stato caffè”. Con la tazzina nella mano sinistra si avvicinò alla finestra e fissando il cielo accostò  l’altra  mano alle labbra e distaccandola lentamente lanciò un bacio “Buongiorno Pa’ Swahili,  ovunque tu sia”. Accese la radio ed ascoltò le notizie che arrivavano da Oltreoceano, poi prese carta e penna e iniziò ad abbozzare un articolo. Se Ronald Reagan fosse stato eletto voleva aver pronto un pezzo da consegnare in tempo reale al suo caporedattore. “Lasci stare tutto il resto”, le aveva detto quello stronzo il giorno prima. No, Elisabeth non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle proprie aspirazioni e ogni volta che veniva presa dallo sconforto ripensava a quel foglietto stropicciato conservato con cura come fosse una reliquia.

 “E’ inutile, Virna, la redazione sportiva neppure li legge i miei articoli. Seppur con un giro di parole, quello stronzo mi ha detto che a nessun lettore di riviste specializzate interessa un articolo scritto da una donna, come se noi donne non sapessimo nulla di automobili”, si sfogò con l’amica, incontrata nella cartoleria sotto casa,  “E poi ho anche l’aggravante della pelle nera, Virna, te ne sei accorta?”, le chiese in tono scherzoso. Scoppiarono a ridere entrambe.

Professionalmente, Virna era stata più fortunata, forse perché la sua principale passione non ruggiva come un motore. Virna curava infatti diverse rubriche che trattavano di arredamento e giardinaggio. I suoi articoli venivano apprezzati sia dai redattori che dai lettori e non mancavano mai sulla sua scrivania lettere di uomini che le dichiaravano il loro amore, soprattutto dopo che il caporedattore aveva deciso di inserire in rubrica la foto del suo bel viso affusolato, dalla carnagione incarnata e dalla folta chioma rossastra. “Perché non chiedi al caporedattore di inserire una tua foto sul giornale?”, suggerì Virna  alla sua amica. Elisabeth corrugò la fronte “Non dire cretinate, non lo farebbe mai e poi sai bene come la pensa la gente, soprattutto quelli che non si perdono un solo articolo sulla politica. Meglio non si sappia che la firma E. L.  è quella di una donna … e  per di più di colore!”.  Virna sapeva che la sua amica aveva ragione e seppur a malincuore preferì cambiare argomento. “Domenica parteciperai?”, le chiese con il sorriso sulle labbra. Intorno ai suoi occhi si formarono alcune piccole rughe. Aveva appena compiuto quarant’anni, due i meno della sua amica, ma sembravano entrambe ragazzine.


“Certo”, rispose Elisabeth, “e come sempre scriverò un articolo che finirà sul fondo del cassetto della mia scrivania, insieme a tutti gli altri”.

Tirò fuori dalla borsetta il pass e lo mostrò alla sua amica “Dici che se ne accorgono?”

Partì  in treno un giorno prima dell’evento, voleva essere certa di arrivare con largo anticipo. Dormì in un albergo di periferia ed al mattino, con uno zaino sulle spalle e lo stomaco in subbuglio si presentò all’ingresso. Temeva che qualcosa sarebbe andato storto, sarebbe stato difficile spiegare le sue buone intenzioni in una lingua che a malapena conosceva. Le guardie controllarono il pass e dopo un lungo istante la fecero accedere all’area.
Ma non era ancora finita, Elisabeth voleva raggiungere i box anche se sapeva che non sarebbe stato facile. Le sarebbe piaciuto intervistare qualche uomo del Team Ferrari o vedere anche solo di sfuggita il grande Gilles. Ci teneva a scrivere un articolo accurato da riporre nel cassetto della scrivania nella sua camera da letto.  

“Fraulein, identifizieren Sie sich”… o almeno così le parve di sentire.

Elisabeth si voltò, un agente la fissava infastidito.

“Ho il pass”, gli rispose in un tedesco traballante porgendo il documento. L’agente lo prese in mano e lo guardò con attenzione “questo pass non le da il diritto di accedere ai box”, la apostrofò in italiano.

Elisabeth si scusò e si allontanò. Era inutile discutere e poi non voleva rischiare.

Si incamminò nell’area adiacente al circuito, nascondendosi come un ladro tra gli alberi.

Si sentiva in colpa, quella firma rubata da un documento ufficiale e riprodotta in controluce avrebbe potuto farle perdere il posto di lavoro. “Se il Signor Innocente lo scopre mi denuncia”,  aveva detto alla sua amica, “ma ben gli sta a quello stronzo e che si faccia un esame di coscienza: se tutti lo chiamano Colpevole un motivo ci sarà”.

Girovagò ancora un po’ e  finalmente trovò il posto ideale. Tolse lo zaino dalle spalle, lo adagiò sull’erba profumata, lo aprì  e lo svuotò con cura. Cannocchiale, telecamera e macchina fotografica vennero allineati su un grande masso, per essere utilizzati secondo le necessità.  Prese in mano il taccuino e attese, seduta su un piccolo cuscino che le aveva regalato suo padre quando era bambina e che portava sempre con sé, ogni volta che sapeva che avrebbe avuto bisogno di un sostegno fisico e morale. “Cosa potrò mai scrivere da qui”, si chiese. Tutto ciò che avrebbe visto sarebbe stato lo sfrecciare delle auto e solo grazie alla radiolina avrebbe potuto conoscere il reale andamento della gara. Unica nota positiva era la curva dello Schwetzakeaind “se non altro le macchine erano costrette a rallentare”, si disse. Guardò intorno a sè, i tifosi erano raggruppati nelle zone a loro dedicate, in lontananza un capannello di persone  sventolava delle bandiere rosse. Lei si sentì felice, felice di essere da sola in compagnia della sua passione.

 “Se solo quella testa di tamarindo del Signor Colpevole avesse ragionato , ora avrei il mio bel pass e me ne starei beata ai box a scrivere interviste e invece son qui, con un cuscino sotto al culo ad aspettare di veder sfrecciare qualche macchina sperando di riconoscere almeno la scuderia!”, pensò con rassegnazione Elisabeth.

Ciò che invece successe quel giorno nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Un’ombra improvvisa attraversò la pista, “Der Fuchs Schwetzakeaind” intitolarono i giornali, ma se si sia trattato veramente di una volpe nessuno lo saprà mai. Quel che è certo è che lei era lì, a due passi da quella curva dal nome impronunciabile,  seduta su un vecchio cuscino imbottito di ricordi, con un pass fasullo nello zaino, un taccuino in grembo ed una penna biro nella mano destra.

L’onda d’urto la colpì in pieno, il calore della gomma bruciata si mescolò a un denso fumo nero, cominciò a tossire, si sollevò da terra cercando di capire cosa fosse successo. Sembrava uno scenario di guerra.  Dalle auto accartocciate cominciarono a uscire i primi piloti, alcuni barcollavano, un uomo in tuta azzurra cadde per terra ma fu subito soccorso dagli altri piloti.  I rumori metallici si mescolarono alle voci concitate e al suono delle sirene sempre più vicine.  Erano passati pochi  minuti ma sembrava di vivere in un’altra dimensione, dove tutto si muoveva al rallentatore.  Idranti e barelle si incrociarono come rami di kiwi, divise bianche, tute rosse da pompiere e uomini in abiti civili popolarono la pista.

 “Dodici feriti di cui due gravissimi, ma pare non ci siano morti”, annunciò lo speaker radiofonico ed Elisabeth ancora frastornata e con gli abiti neri di fuliggine tirò un sospiro di sollievo.  Scattò foto attraverso la rete che la separava dalla pista, la telecamera appesa a tracolla captava le voci, i suoni, i rumori. Non poteva far nulla per alleviare il dolore ma poteva almeno descriverlo con l’ausilio del suo prezioso bisturi dalla punta a sfera.

 “Ho saputo che era presente”, le disse il caporedattore il giorno seguente. “Se le va di scrivere qualcosa saremo ben felici di leggere un Suo articolo ed eventualmente pubblicarlo”.

“Mi spiace Signor Innocente”, rispose Elisabeth, “ero troppo lontana e non ho visto nulla”.

Quella sera, nel silenzio della sua stanza, prese in mano gli appunti e scrisse il miglior articolo della sua vita, poi lo ripose nel cassetto, lo chiuse  a chiave e andò a dormire.

L’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa, avrebbe dovuto scrivere un pezzo sull’insediamento del Presidente Ronald Reagan, il suo caporedattore era stato categorico  “dobbiamo sfondare, dobbiamo battere la concorrenza,  non mi deluda”. – “Non la deluderò”, aveva risposto Elisabeth, consapevole che con i sogni non si paga la spesa ed ancor meno l’affitto.

La raccomandata della casa editrice alla quale aveva inviato una prima bozza del suo libro non tardò ad arrivare. Elisabeth era stata chiara fin da subito, “Questa sono io”, aveva scritto allegando una foto a colori scattata con la sua Polaroid. Aprì la busta con trepidazione, al suo interno un invito a presentarsi in redazione, poche righe e una postilla che la fece piangere di gioia “La ringraziamo per averci fatto sentire il profumo dell’erba ed il calore dei motori ”.

DISCLAIMER

I fatti narrati sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autrice. Nessun kiwi è stato maltrattato e nessun uomo o donna umiliato. Non me ne vogliano i familiari dei personaggi citati e qualora si sentissero in qualche modo offesi o presi in causa possono tranquillamente richiedermi la modifica o la rimozione del post.  Mi sento in dovere di ringraziare la mia compagna di blog che attraverso questo nostro corso “homeself” di scrittura creativa mi ha permesso di approfondire molti aspetti della Formula Uno e di rivivere parte della mia infanzia, trascorsa con mio papà davanti alla televisione in attesa del semaforo verde.
Peace and Love
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8 pensieri riguardo “L’Evento”

    1. Grazie socia , non so in quanti siano arrivati fino in fondo a leggerlo, ma ti assicuro che a me ha fatto veramente piacere scriverlo. Questo testo mi ha permesso di tenere la mente lontana da tanti pensieri e di trovare più tempo per me stessa . Un abbraccio, a presto .

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